La carta vincente di questa commedia non è tanto il tema della precarietà del mondo del lavoro e del dramma psicologico che sconvolge la vita dei soggetti, quanto l’elaborazione drammaturgica del testo e la grande prova d’attore di Giuseppe Battiston. L’autore, Andrea Bajani, lancia un’accusa a questa società cinica e mercatista che cancella dal suo dna (dall’articolo 4 della Costituzione) il diritto al lavoro elemento fondante della dignità umana. E’ un testo accorato e a tratti straziante che però, anche se ben confezionato, manca di originalità, ci ripropone problemi di cui sono piene le cronache quotidiane. Non dice insomma nulla di nuovo ma lo descrive con bella calligrafia. Il vero protagonista è il bravissimo Giuseppe Battiston che con un monologo di quasi due ore racconta con una straordinaria varietà di accenti e con acconcia gestualità la tragedia di un cinquantenne che dopo diciottomila giorni di vita (50 anni appunto), perdendo il posto di lavoro cade nel buco nero della disperazione: la moglie lo lascia, si porta via il figlio e i mobili di casa, lasciandogli solo un ammasso di vestiti disordinati nel centro della scena e una serie di “mucchietti” di vestiti ordinati, che nella fantasia del protagonista danno vita a ricordi di sconfitte e amare delusioni. Alla fine ossessionato dalla “attenzione” dei vicini e da questa vita matrigna si convince che per continuare a vivere, deve fingersi morto.
In questa totale immersione nella sfera negativa dell’esistenza, non mancano i momenti poetici grazie alle musiche dal vivo di Gianmaria Testa che ha composto bellissimi brani inediti appositamente per lo spettacolo. L’unico appunto che si può muovere è che la reiterazione di concetti e situazioni rende la pièce un po’ prolissa.
Il successo dello spettacolo è assicurato dall’attenta regia di Alfonso Santagata, dalle invenzioni sceniche di Massimo Violato, dall’utilizzo delle luci di Andrea Violato e dalle musiche di Gianmaria Testa che moltiplicano le emozioni.