Cinico, razionale e grottesco: è Il berretto a sonagli di Pirandello. Caratteristiche queste, ben evidenziate nel nuovo allestimento della commedia, diretto da Giuseppe Dipasquale, direttore del Teatro Stabile di Catania che coproduce lo spettacolo. E così il regista confeziona uno spettacolo sofisticato che cela dietro l’eleganza delle buone maniere e il bianco abbagliante degli abiti, tutta l’amarezza della commedia di Pirandello con la chiara intenzione di rendere ancor più dolosamente stridente la teoria delle maschere e il proprio essere. Tutti siamo pupi, dice chiaramente Ciampa lo scrivano, e tutti abbiamo tre diverse corde, la civile, la pazza la seria, da caricare debitamente a seconda delle necessità. Ovvio poi che sia la corda civile ad essere la più utilizzata. Ma che cosa accade quando si “gira” la corda sbagliata andando a far pericolosamente saltare i precari e falsi rapporti interpersonali? Lo capirà, o meglio lo scoprirà a sue spese, anche la gelosissima signora Beatrice, sposata al ricco e stimato Cavalier Fiorica. Sarà lei, su istigazione della Saracena, a voler denunciare a tutti i costi al delegato Spanò, amico di famiglia il marito, reo di adulterio proprio con la moglie di Ciampa, lo scrivano. E Ciampa, consapevole che tutti siano pupi, riuscirà a liberarsi proprio della sua maschera di “becco” davanti all’intero paese, solo attraverso la (finta) pazzia di Beatrice, rea di aver detto la verità. Dipasquale porta in scena un Berretto a sonagli misurato e senza eccessi che concentra l’attenzione tutta sugli attori e sullo scavo psicologico, sui dialoghi che diventano motivo di scontro, seppur civile: la messa in scena è tutta giocata sui repentini cambiamenti di registro, nell’alternare ai toni da melodramma quelli farseschi, momenti dal taglio comico al altri decisamente più drammatici. E a caricare proprio il valore sociale e psicologico di ogni personaggio ecco i costumi di Elena Mannini che appaiono particolarmente intriganti: tutte le signore e i signori sono elegantemente vestiti di bianco, Ciampa in scuro, la Saracena, donna di malaffare in provocante nero, mentre Nina, la moglie dello scrivano, brilla per un guizzo di rosso. Molto coerente con il testo originale di Pirandello è la semplicità, ma anche la scena: la vicenda tutta e i personaggi, si muovono intorno al divanetto (decorato, in plexiglas), che cambia posizione; i personaggi vi si siedono (anche sovente di spalle alla platea per concentrare l’attenzione sul loro interlocutori in scena), vi girano intorno, sfruttano le quattro uscite, posta ciascuna su ogni lato della scena attraverso il salone del signorile palazzo del Cavaliere riproposto attraverso un fondale con una moltitudine di specchi, attraversano la quarta parete-sipario per entrare e uscire dal palazzo. Inoltre alcuni accorgimenti registici appaiono particolarmente interessanti, dalla proiezione nello specchio della moglie di Ciampa che appare a Beatrice in apertura del primo atto, quasi a preludere la vicenda, all’inaspettata soluzione finale, dalle voci amplificate dagli attori che entrati in scena rimangono solo quasi spiati per qualche secondo dal pubblico dietro la scena per poi svelarsi completamente. E il dramma si consuma sulle note di Mahler, fra abiti bianchi e convenzioni sociali. Fa tanto Luchino Visconti, ma siamo in Sicilia, negli Anni Dieci del Novecento e i variegati accenti siciliani degli attori ce lo rammentano al meglio. Pino Caruso si confronta, e con successo, per la prima volta con il personaggio dello scrivano Ciampa dipingendolo con raffinata sagacia e pacatezza, quasi sornione e maleficamente machiavellico, razionale e dimesso nel primo atto per poi esplodere (ma solo metaforicamente) fra la rabbia e l’incredulità nel secondo atto, tradito e ferito nell’onore, mantenendo sempre gesti composti e controllati. Molto convincenti tutti gli attori, ciascuno alle prese con un personaggio psicologicamente ben delineato, ma in particolar modo, molto brava la “comprimaria” Magda Mercatali che contraddistingue la sua Beatrice Fiorica con toni melodrammatici ed esagitati, fra gesti disperati e quasi plateali, divertente la caratterizzazione dell’imbranato, ma astuto delegato Spanò (Giovanni Guardiano). Ultima, non meno importante nota della serata, l’accorato e umoristico, sarcastico (che si voglia far cessare di far pensare liberamente il pubblico?) appello di Pino Caruso contro i tagli alla cultura. Applausi meritati allo spettacolo e all’appello.