Recensione scritta da Fabiana Raponi
Se la serata si apre con un appello purtroppo di sconfortante attualità (l’Accademia contro il mancato reintegro del FUS previsto dal decreto milleproroghe, vero atto di progressiva “dismissione della cultura italiana” di cui rifiuta di essere complice Bruno Cagli che di recente ha dichiarato che “se i tagli allo spettacolo passeranno così come sono nel decreto milleproroghe, rassegnerò le mie dimissioni da presidente sovrintendente dell’Accademia di Santa Cecilia”), il resto è pura magia. Merito dell’inedita coppia Martha Argerich-Yannick Nézet-Ségun: lui, giovane (classe 1975) rivelazione del podio, canadese di Montreal, impegnatissimo in molti teatri lirici internazionali è ospite per la prima volta a Santa Cecilia; lei, argentina, ospite abituale a Roma, è forse la più grande pianista vivente. Un programma avvincente (Prokoviev, Ravel) che ha promesso e ha fatto faville, incantando la platea, una palpabile alchimia fra la solista, il direttore e l’Orchestra. Ovazione finale per la straordinaria pianista che nell’impervio e bellissimo Terzo Concerto di Prokofiev (uno dei suoi “pezzi forti”) sfodera eccelsa classe e interpreta la colorata partitura con fascinosa intensità fra ardente poesia e necessaria aggressività, in un’esecuzione di tecnica travolgente e virtuosismo (mai fine a sé stesso) magistrale. Il tocco è deciso e leggero a chiudere energicamente il primo movimento, la giocosità grave del secondo movimento appare impetuosa, sublimi le variazioni del terzo movimento, dal lirismo alla forza del crescente movimento ritmico del pianoforte fra passaggi fluidi e attacchi perfetti. Un trionfo e un bis a quattro mani con Nézet-Ségun (Debussy?). Convince il pubblico romano, anche nella seconda parte della serata, il giovane direttore d’orchestra canadese che, particolarmente “attento” al Concerto, delinea la giusta coloritura emotiva e bozzettistica del balletto (eseguito in versione integrale) Daphnis et Chloé (1912) di Ravel (commissionato al musicista per la compagnia Balletti Russi di Diaghilev). Con una tal partitura Nézet-Ségun coinvolge il Coro (incisivo, preparato da Ciro Visco) e impegna drasticamente l’Orchestra tutta che fa sfoggio di ogni sezione dai fiati sussurrati alle possenti percussioni, a disegnare quadri e figure, per una poetica, fantasiosa, brillante struttura timbrica che emerge in tutta la sua ricchezza. Nézet-Ségun ha lasciato intuire tutta la coloritura della partitura, fra amore, gelosia e sottile erotismo, a tratteggiare quasi la coreografia. Mancava solo il balletto. Tripudio finale anche per la giovane rivelazione del podio.