«Conduco un lavoro sospeso fra tradizione e ricerca alla scoperta di un “teatro sensibile”,
dove l’emozione e il corpo dell’attore vogliono essere il punto focale del fare teatro,
senza rinunciare ad una spiccata attenzione per le arti visive e la musica». È questo il segreto di Valter Malosti e dei suoi spettacoli, evocativi, ironici, magici, come Venere e Adone, l’ultimo capitolo del mese monografico tributato all’attore dal teatro Valle di Roma. Il testo shakespeariano diventa un lungo monologo, ricchissimo di sfumature interpretative, che vanno dal registro tragico a quello buffonesco, adottando un linguaggio di buon gusto, frutto della traduzione di Malosti . Chi parla è solo Venere, drammatica e vezzosa, violenta e dolcissima, che concupisce Adone e lo instrada sulla via della passione dei sensi. La giovane preda (Daniele Trastu) non parla, si fa condurre nel gioco d’amore, si schermisce con flessuosi movimenti del corpo, dialoga in silenzio col corpo dell’amante senza mai uscire dall’angusto spazio di una pedana mobile su binari. Per Valter Malosti forse all’amore non si sfugge, se non con la morte, separazione definitiva e dolorosa, unico momento in cui gli attori tornano ad esplorare il restante spazio scenico. Venere nella sua disperazione, alla morte di Adone, sfonda la quarta parete e si protende di vari centimetro sulla platea; il suo pathos “buca” la scena e dà l’ultima stoccata alla tensione emotiva già alta degli spettatori. Venere e Adone di Valter Malosti si nutre del teatro passato e presente: tradizione napoletana, echi pasoliniani e movenze ambigue si mescolano perfettamente, dando un segno completamente nuovo al sonetto classico. La grande attenzione posta sulla musica, ricercata e variegata, che manipola rumori naturali con canzoni moderne, ha il suo contraltare nei costumi, poveri, sgradevoli, molto pop, rasenti il trash. Venere e Adone è quanto più dionisiaco potesse mettere in scena la compagnia del Teatro di Dioniso.
“Venere e Adone” al Teatro Valle di Roma
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