Danio Manfredini conduce da diversi anni, a Milano, un laboratorio di espressione visiva all’interno di una comunità terapeutica per sofferenti psichici. Alle persone che ha conosciuto nel corso di questa esperienza, ma anche alle figure di emarginati, transessuali, disadattati che hanno attraversato il suo universo di riferimenti artistici e letterari, dedica questo spettacolo, facendo proprie fino in fondo le ferite di un’umanità derelitta. Il percorso artistico di Manfredini è eccentrico, i suoi lavori non sono prodotti più o meno riusciti, ma organismi viventi. Il suo non è solo teatro, o meglio la scoperta – quasi il “miracolo” – di uno dei teatri possibili. È pittura, perché nei suoi gesti minimi e ineluttabili si condensano insieme la traiettoria della mano che traccia il segno e il segno stesso. È danza, nel ritmo e nella concatenazione dei movimenti, nell’occupazione dello spazio. È poesia, nella riflessione sulla marginalità e sul diverso che costituisce forse il filo rosso di tutto il suo percorso: sofferta e mai esibita, che rifugge da ogni sentimentalismo e banalità. Se parlate con molti degli artefici e degli appassionati del nuovo teatro italiano, scoprirete che Danio è un maestro segreto, che nei suoi seminari ha segnato numerose carriere artistiche: con il suo rigore, la sua esperienza, la sua saggezza, e ovviamente una competenza acquisita attraverso anni di prove, di improvvisazioni e di ricombinazioni drammaturgiche. Ma è soprattutto la sua integrità di artista a offrire un esempio e un punto di riferimento importante per tutti.