Un uomo (l’autore) e tre donne (la regista e le attrici) per raccontare una storia di attualità e di solidarietà tutta al femminile. Due donne si incontrano casualmente nel magazzino di un’azienda. L’una, Silvana Nobile è una rampante tagliatrice di teste, l’altra (Maria Paiato) una rassegata impiegata che sta per perdere il lavoro, ma nessuna delle due potrà mai immaginare che questo incontro cambierà per sempre le loro vite. È solo l’incipit di Precarie età, una bella commedia italiana sui tempi moderni scritta da Maurizio Donadoni che racconta con sensibilità e un pizzico di amarezza, in salsa agrodolce e senza false indulgenze una realtà tutta al femminile, fra avvilenti realtà lavorative e fallimenti sentimentali. Il lavoro, l’amore, il matrimonio… insomma tutto ciò che va affrontato nella vita in un periodo di precarietà, ma anche di precaria età biologica della protagoniste. E tutti gli effetti della precarietà si concretizzano visivamente nelle scene mobili di Giacomo Andrico: gli scatoloni diventano occasionalmente perfetti per ricostruire via via il polveroso magazzino di una grande azienda, la disordinata casa di Silvana, lo spazio pulito e ripensato in stile feng shui per riprodurre concretamente ciò che accade interiormente ai personaggi. Nel primo atto Patrizia Milani, vivace e sicura, è la brillante tagliatrice di teste in carriera arrivata in azienda per ridurre il personale, Maria Paiato è la rassegnata e sola Marina, dipendente ormai prossima al licenziamento. Ma le sorprese non mancano e i ruoli si invertono. Nel secondo atto (ambientato cinque anni dopo) la grigia impiegata ha saputo reinventarsi con un nuovo lavoro e una nuova vita, la manager, lasciata dal marito, è caduta in depressione. Finale a sorpresa. C’è da dire che il testo è piacevole e fa riflettere senza mai esser retorico o scontato, alternando lunghi monologhi volti alla scoperta di sé stessi, fra ironia e tocchi di drammaticità, fra folgoranti freddure o realistiche prese di coscienza della realtà. Insomma, la materia prima non manca, ma c’è anche da dire che sulla scena le due attrici protagoniste sono davvero impagabili nel dare anima e corpo ai propri personaggi. Bravissime, versatili e trasformiste anche fisicamente, Maria Paiato (l’impiegata Marina) e Patrizia Milani (la manager Silvana) costruiscono dei personaggi molto sfaccettati partendo da quelli che potrebbero essere definiti come clichè, ma andando in ogni singolo momento a personalizzarli per renderli “veri”. Due grandi attrici che vivono pienamente i loro personaggi e li rendono indelebili.
Più drammatica la prima parte, più divertente e brillante la seconda, la commedia offre uno sguardo lucido sulla precarietà lavorativa e sentimentale, e si chiude con un lieto fine, un inno alla capacità e alla volontà di rimettersi in gioco con l’aiuto (perché no?) di un po’ di solidarietà umana (e tutta al femminile in questo caso). Finale non consolatorio, ma che offre la non facile speranza di potersi reinventare, di poter ricominciare con orgoglio e consapevolezza. Si esce dal teatro con il sorriso sulle labbra, soddisfatti e felici. Una ventata di ottimismo. Indispensabile in questi tempi.