Per introdurre la discussione sulla commedia “Acido Solforico” tratto dal romanzo della famosa scrittrice Amélie Nothomb (di cui ricordiamo il bellissimo “Libri da ardere”) è opportuno soffermarci brevemente sull’esperimento Milgram. Il famoso test di psicologia sociale, condotto dallo psicologo Stanley Milgram, mirava a studiare il comportamento di soggetti ai quali un’autorità ordinava di eseguire delle azioni palesemente in conflitto con la loro coscienza e i loro valori etici. Il risultato dell’esperimento ci dice che se avessimo il coraggio di guardare nel nostro inconscio scopriremmo che il mostro è in agguato dentro di noi pronto ad obbedire alle più abominevoli sollecitazioni.
Con l’ottima elaborazione drammaturgica di Patricia Conti e la regia di Alessandro Castellucci (ambedue valentissimi interpreti) ventitre attori del Tieffe teatro e del Macrò Maudit Spettacules portano in scena un reality show che costruisce la vita e la morte di un gruppo di persone in un lager tedesco. La produzione, per questo nuovo reality, che si chiamerà “Concentramento”, recluta fra decine di persone che si presentano per le audizioni e sgomitano per essere selezionati quelli che saranno i kapò, poi rastrella ignari cittadini (i prigionieri) li carica su vagoni piombati e li manda nel campo di detenzione forzata dove viene loro assegnato un numero identificativo. In un perverso gioco mediatico i prigionieri in questa aberrante realtà virtuale, vengono trattati come nei lager nazisti, alcuni moriranno di stenti, altri saranno mandati a morte. Diceva Theodor W. Adorno “Auschwitz ricomincia quando si guarda ad un macello e si pensa: sono solo animali”.
Tutto si svolge sotto l’attento sguardo del regista che interrompe le azioni per mandare in onda la pubblicità e per dare la parola ad improbabili ospiti. Poi si riaccendono i riflettori e le telecamere per proseguire l’escalation che, più è spietata, più fa salire l’indice di ascolto. Il clou della brutale teledipendenza degli ascoltatori si tocca quando la conduttrice, la brava Cinzia Spanò (che fa il verso a Simona Ventura) sollecita il pubblico a votare quali prigionieri dovranno essere le prossime vittime. Nello show c’è posto anche per l’amore – un amore ossessivo di una brutale kapò per una giovane bella prigioniera – che avrà un effetto catartico con la liberazione dei prigionieri e la distruzione del fittizio lager con delle finte bottiglie “molotov” piene di acido solforico.
Il j’accuse della Nothomb nei confronti dei programmi televisivi che si basano sulla sollecitazione dei più bassi istinti è violento. Una satira grottesca del sadismo ipocrita e incosciente del pubblico che deplora formalmente l’orrore ma non perde una puntata.
Gli spettatori del reality sono vittime del loro naturale istinto bestiale (imbrigliato dal processo culturale) che, in quel contesto, si esprime in modo virtuale, ma che nella realtà esplode in quotidiane violenze.
I veri spettatori, quelli seduti a teatro, sono anche loro prigionieri. Il teatro in realtà si trasforma in uno studio televisivo dove un direttore di sala sollecita/obbliga gli spettatori ad applaudire, ad alzarsi in piedi e a partecipare, assieme agli attori del reality che invadono la platea, all’atto finale.
Si potrebbe parlare di metateatro o metatelevisione o più prosaicamente di “reality dietro le quinte”. Il meccanismo coinvolge lo spettatore, lo intriga, lo sconcerta e a tratti diverte. Le scansioni temporali, il ritmo, il movimento delle masse e l’organizzazione del complesso meccanismo scenico funzionano alla perfezione grazie al regista Alessandro Castellucci. Le bellissime scene sono frutto dell’intelligente interpretazione di Guido Buganza, il disegno luci di Mario Loprevite, le musiche di Fabio Vacchi. Il cast di attori, oltre ai sunnominati Alessandro Castellucci, Patricia Conti e Cinzia Spanò, dobbiamo ricordare Nicola Stravalaci, Ruggero Dondi, Debora Zuin, Federica Fabiani, Giulio Baraldi, Valeria Perdonò, Enrica Chiaruzzi, Sasà Bruna. Meriterebbero di essere singolarmente menzionati anche i bravissimi allievi della Scuola di Teatro Maudit che, per ora, rimangono “prigionieri” senza identità.
Spettacolo da non perdere.
P.S.
I reality sono solo una parte del tutto. Televisioni e giornali vanno ben oltre il dovere dell’informazione con la celebrazione di processi sommari – senza averne né titolo, né prove – e con l’aggravante di gettare manciate di fango, di volta in volta, su personaggi senza volto ma facilmente identificabili. Quello che infastidisce nei cronisti è la morbosità nel raccontare, la volontà di indagare in proprio sfruttando il dolore dei familiari, dando corda all’esibizionismo dilagante e promuovendo il gossip a notizia. Insomma la pietas lascia il posto allo show o, più precisamente al business (catturare l’audience e vendere i giornali). L’offesa al comune senso pudore (inteso non in senso pruriginoso, ma come rispetto della persona) è l’ultima delle preoccupazioni del cronista al quale è stato insegnato che per lo scoop, se necessario, è doveroso prostituirsi (nel senso di rinunciare alla propria dignità). Per l’audience si deve far leva sui sentimenti, provocare emozioni a costo di toccare le corde primordiali e anche meno nobili dell’animo umano. Non è la notizia in sé che va taciuta, ma la spettacolarizzazione del dolore. I fatti andrebbero raccontati con partecipazione controllata e possibilmente senza note di colore. I giovani yuppies della cronaca dovrebbero ricordare il principio di essenzialità che era alla base del mestiere del vecchio cronista: la regola delle cinque W (what, where, when, who, why: che cosa, dove, quando, chi, perché).