Il sipario sulla stagione 2011 del Silvano Toti Globe Theatre di Roma cala (simbolicamente perché non c’è sipario) con una delle nuove produzioni del teatro, forse la più attesa e la più importante: è in scena il Riccardo III di Shakespeare, cruda tragedia sulla bramosia del potere, sul cinismo dell’uomo, atroce parabola sulla malvagità umana.
Dirige Marco Carniti, che aveva già chiuso la precedente stagione con La bisbetica domata e che al regista piaccia modernizzare i testi lo si era già intuito proprio con la versione moderna della vicenda di Caterina e Petruccio protagonisti della guerra dei sessi su un ring di boxe. Qui siamo invece in un’Inghilterra storica, ma non ci sono trine e merletti né intrighi di corte, solo la scalata al potere di Riccardo di Gloucester: il mondo è una lunga passerella di rosso (fra sangue e potere) laccata che si protende fra la platea, pesanti funi e macabre catene che scendono dall’alto accompagnano la sanguinosa vicenda. Le scene, dello stesso Carniti, gettano fin da subito la luce su un Riccardo III moderno e violento che fra sangue e delitti si presta a essere quasi un incubo dell’inconscio alla Francis Bacon di cui richiama colori cupi e toni, un labirinto di passioni e di violenza inaudita quasi in salsa rock con la musica assordante, quasi disturbante fin dall’inizio, violenta prolessi di quanto sta per accadere.
Carniti allestisce una dramma della psiche che assume quasi involontariamente, con frequenti cambi di registro, i tratti della farsa quando Riccardo svela di continuo i suoi piani al pubblico, mentre nessuno prova minimamente a opporsi a lui. Astuto, infido, malvagio e traditore di nero vestito, Maurizio Donadoni è Riccardo III, qui un villain moderno in cui lo spettatore può spaventosamente scrutare l’insita malvagità umana, pronto a tutto pur di conquistare il trono, perché “la coscienza è pericolosa e rende l’uomo un vigliacco” e “la strada del potere è intrisa dell’orrore”. Il Riccardo di Donadoni passa non solo attraverso metamorfosi fisica, fra gobba e gamba claudicante, ma anche attraverso l’inaspettata alterazione della voce indice della sua vera natura, dell’atroce e farsesca ambivalenza del personaggio, facendosi da tenera e accondiscendente a roca e cupa, un sussurro maligno e perfido a confidare fin da subito e costantemente al pubblico le sue vere intenzioni, il suo vero io. Donadoni si atteggia e mima, convince e ammalia il pubblico con un Riccardo mefistofelico, aggressivo e scellerato.
Fulcro dell’opera, intorno a lui gravitano numerose figure che non vengono fagocitate dal suo personaggio, ma ne esaltano la scelleratezza, dal mellifluo traditore Buckingham (Gianluigi Fogacci, uno dei protagonisti della stagione) al nutrito gruppo di ottime attrici che danno vita ai personaggi femminili. Sfilano la straordinaria Sandra Collodel (la Regina Elisabetta, vedova di Edoardo), la dolce Federica Bern (Lady Anna, sposa di Riccardo), la sublime Duchessa di York di Paila Pavese e l’applauditissima Margherita d’Anjou, privata del potere e degli affetti, di Melania Giglio a tratti anche un po’ troppo caricaturale, ma senza dubbio d’effetto. E sono proprio le donne le uniche a rendersi conto della malvagia efferatezza di Riccardo, della sua vera natura, mentre gli uomini appaiono inetti e incapaci di fermarlo. La modernità dello spettacolo passa anche attraverso i costumi di Maria Filippi che veste rigorosamente in nero i cattivi, fra dettagli in pelle e cinture, e taccia con macchie colorate tutti quanti aiutino il re usurpatore, in bianco le anime pure dei principi, riservando la pomposità agli abiti delle ladies. Quasi tre ore di spettacolo, ma tutto appare inesorabilmente rapido proprio come se il susseguirsi dei delitti fosse un teorema, perché il delitto chiama delitto. Il resto poi è invenzione visiva, mutazione della tragedia della malvagità umana in immagini forti, dalla torture al letto di morte di Edoardo, perché il mondo è una passerella dove sfilare e dove esibire il potere con tanto di trono o di corona, dove il sangue dei delitti viene prontamente pulito. Il sogno di Riccardo prima della battaglia poi è un vivido esempio di lucida visionarietà: un bagno di sangue popolato dalle sue innumerevoli vittime che lo torturano assediandolo come Erinni fino al fragoroso finale il cui il protagonista, orami perduto (non solo moralmente, ma anche fisicamente) reclama disperatamente “Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!” squarciando con violenza la porta d’entrata.
Fabiana Raponi