A Mara sono stati uccisi i genitori: si rivolge a Dollìrio (don Lirio), il boss del quartiere, al quale affida la sua vendetta. Nel corso delle sette scene di cui si compone il dramma e che coprono un arco temporale di circa venticinque anni, assisteremo all’ascesa di Mara all’interno della famiglia di Dollìrio: da sguattera a padrona di casa, moglie del figlio del boss; da faccendiera a complice, a imprenditrice degli affari della famiglia; sarà Mara a gestire, in prima persona e per conto di Dollìrio, il passaggio dalla mafia di quartiere alla mafia imprenditoriale, integrata nel mondo finanziario ed economico, contigua ai poteri, primo tra tutti quello politico. Alla graduale decadenza fisica, sino alla paralisi, di Dollìrio, si contrappone la crescente vigoria e volitività di Mara, in un progressivo gioco a spirale che è anche lotta tra mondo maschile e mondo femminile all’interno dei perversi intrecci di poteri. E la forza scenica del femminile è assecondata dal linguaggio dell’opera, in costante disequilibrio tra italiano e siciliano: un linguaggio che, pur proponendosi d’invenzione, non rinuncia al realismo e alla concretezza -e alla crudezza- che impone l’argomento trattato.
Con Dollìrio Nino Romeo prosegue l’indagine sulle dinamiche interne alla malavita organizzata nel catanese -per certi aspetti diversa da quella della Sicilia orientale- già intrapresa in Chiamata d’asso (Targa speciale della giuria al Premio Fava 1990) e in !Cucì…Cucì! (Premio Fava 1992).
Con particolare riferimento all’interpretazione protagonistica nello spettacolo “Dollìrio”, Graziana Maniscalco ha ricevuto nell’anno 2007 il premio dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro (premio Inscena), con la seguente motivazione: “Attrice di vivido temperamento filtrato da misura interpretativa e razionalità dell’espressione -sia mimica che vocale- lavora da tanti anni al perfezionamento di una femminile individualità di attrice, ove la passionalità mediterranea si congiunge idealmente ai più rigorosi modelli della grande drammaturgia nord europea. Animatrice del gruppo Iarba di Catania, analizza un labirinto linguistico che esula dallo stereotipo dialettale facendosi ricerca di un lessico inusitato e restituito a nuova dignità poetica, come nel caso di Dollirio rappresentato di recente allo Stabile di Catania”
Note di Nino Romeo, autore e regista di “Dollìrio”
Anni fa vidi in televisione una ragazza che aveva perso entrambi i genitori in un incidente: non riusciva a piangere, parlava a fatica, umettava di continuo le labbra, dondolava il capo, a volte scoteva il busto come fosse una pertica; furono sufficienti poche immagini per imprimere nella mia memoria lo smarrimento e la solitudine che quella ragazza si portava dentro. Da quell’immagine sono partito per costruire la struttura, narrativa e drammaturgia, di questo testo teatrale, ponendo a confronto, all’inizio del dramma, l’immagine di quella ragazza indifesa -che ho chiamato Mara- con un uomo di potere -potere mafioso- che ho chiamato Dollìrio. La storia che si dipana è ricca di richiami a fatti di cronaca avvenuti in Italia negli ultimi trentanni; il linguaggio di Mara è parzialmente mutuato dallo slang metropolitano in uso nei quartieri popolari della mia città -ed io sono nato e cresciuto in uno di questi quartieri, definito ad “alta densità mafiosa”-. Ma Dollìrio non è un testo sulla mafia; è piuttosto un testo che si sviluppa all’interno di una famiglia di mafia, che tenta di auscultare i battiti di quel potere: potere onnivoro e onnipresente, per tanti aspetti assimilabile ad un potere statuale. E Mara, dapprima estranea a quel potere, nel corso della vicenda, assume il linguaggio -verbale ed extraverbale- e la logica di quel potere, sino a gestirne i mutamenti e gli adattamenti relazionali. Il finale non prevede alcun pentimento né ravvedimento: in Mara prevalgono, progressivamente, smarrimento e dislocazione, da lei stessa confermati, e racchiusi nella frase: “io ho fondato la mia causa sul nulla”; frase con cui Max Stirner apre e chiude il suo “Unico”: una frase polisemica, ma già per sé significante.
Il testo ha un forte impianto narrativo. In sede di allestimento ho ricercato l’elemento strutturale che riuscisse a legare i frammenti di storia -e i progressivi mutamenti del personaggio di Mara- che si succedono nelle sette scene della pièce. Questo elemento unitario l’ho trovato in una frase di Mara nel sottofinale dell’opera: “ripassare questi trentanni al setaccio di una coscienza rinnovata”. Così l’inscenamento del racconto teatrale assume i caratteri di un riepilogo della memoria e della coscienza della protagonista: un punto di vista intrasoggettivo affidato alla scena e che nella scena trova consistenza. Il realismo narrativo del testo -che mi ha avvinto nella fase di scrittura- perde la trama di “sequenza cronologica di eventi” per attestarsi nelle zone di marginalità di un iperrealismo forzato della memoria.”