Il Maestro Antonio Pappano, l’Orchestra e il Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, un grande programma. Gli elementi per un successo, l’ennesimo e meritato, della stagione sinfonica romana ci sono tutti. E così è stato, a Roma, in tournée a Milano al Teatro alla Scala e di nuovo a Roma. Il programma proposto è solo all’apparenza antitetico: musica contemporanea e musica classica, sacralità della vita e sacralità della morte. Eppure esiste un sottile fil rouge che ha legato i brani del programma e si tratta di una sorta di serafica accettazione del principio e della fine.
Da una parte la sacralità della morte con il grandioso Requiem Tedesco di Brahms (in originale Ein deutsches Requiem, Un Requiem Tedesco, eccezionalmente diverso da qualsiasi altro), dall’altra la sacralità della vita con Ās-Lêb (Soffio vitale) di Ivan Fedele, commissione dell’Accademia di Santa Cecilia, in prima esecuzione assoluta. Un titolo evocativo per un’opera che nasce dall’incontro fra l’autore e Pappano per “far cantare il Coro come parte integrante dell’Orchestra, senza utilizzare un testo, ma dei semplici fonemi”. Pappano introduce, invitando il pubblico a “resettare” la propria mente per ascoltare, immedesimandosi nei quattro movimenti, che si aprono e si chiudono circolarmente da un momento apparentemente statico al crescente dinamismo, alla drammaticità al ritorno alle origini. “Semplicemente Âs, parola antichissima, sanscrita, radice della parola latina Os, ovvero bocca – ha detto Fedele – Bocca come primo strumento musicale (…) E Lêb, in aramaico cuore, cuore pulsante, simbolo non solo della vita ma anche luogo dei sentimenti di cui è capace l’essere umano. Âs-Lêb si configura, così, come un canto alla sacralità della vita”.
Un concerto vocale, che seppur di carattere po’ concettuale, ha affascinato il pubblico con un grande Coro impegnato in primo piano.
E un grande Coro, ha dominato anche la seconda parte della serata, con l’amato Requiem tedesco composto da Johannes Brahms tra il 1866 e il 1867, dedicato all’amico Schumann e alla madre. Articolato in sette movimenti, non ha davvero nulla a che vedere con i requiem della tradizione latina: dimenticate Mozart, dimenticate anche il travolgente suono dell’agnostico Verdi, ma non dimenticate l’emozione di una grande reinterpretazione. Per Brahms il Requiem è musica consolatoria e serafica, nella musica, celestiale e struggente, non c’è nulla, o quasi, di cupo o misterioso, non c’è ira divina o terrore per il giudizio, quanto la speranza e la rassegnata accettazione della morte. E così lo interpreta Antonio Pappano dal podio, trascendendo la spettacolarità della musica e degli effetti, con il suono dell’orchestra, rigoroso in ogni sezione, grandioso e maestoso nei contrappunti, ma intimo e sussurrato, quasi struggente, luminoso e avvolgente, quasi rassicurante, perfetti i pianissimo che conferiscono tocchi di ariosa leggerezza. L’accettazione pacata e consapevole della morte prende forma dall’armonia dell’Orchestra, sempre ottima, fra la dolcezza degli archi o la tuonante profondità del Coro (preparato da Ciro Visco) che ha avuto un ruolo primario, non solo nel “concerto vocale” d’apertura, ma anche nel Requiem. Incisivo e serrato, ma dolcissimo nei sussurrati e reiterati pianissimo della partitura ha interpretato i testi con ricche sfumature emotive. Solida anche la prova dei solisti, il baritono Peter Mattei e il soprano Rebecca Evans che splende nella gioiosa aria del quinto movimento.
Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Pappano dirige il Requiem Tedesco di Brahms
1586
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