Ci sono due modi per affrontare l’opera d’arte nelle sue varie espressioni, musicale, figurativa, teatrale. O ci si arrovella, al di là del fatto estetico, per capire i significati, le ragioni, i messaggi oppure (e questo vale soprattutto per la musica e l’arte contemporanea) ci si lascia trasportare dalle sensazioni, dall’emozione, dall’ebbrezza dello straniamento pur senza mettere in stand-by la ragione.
Le emozioni e le suggestioni nascono dalla creatività di Moni Ovadia che, con l’aiuto di quattro valentissimi orchestrali compone un “concerto” fantastico precipitando lo spettatore nella magia delle canzoni/ballate yiddish. Musiche struggenti, lamentose, colorate, di grande impatto evocativo. Ma questa volta l’attore supera se stesso. Canta in modo ispirato con delle sfumature, varietà e intensità di toni (e con eleganti passi di danza!) che emozionano ed esaltano lo spettatore.
Lo spettacolo è composto da una serie di frammenti di realtà, di storie, di ricordi personali che riconducono tutti al tema dell’esilio che ha come corollario il desiderio di libertà, il richiamo della terra, le contraddizioni comportamentali, la perdita di valori, i frequenti errori dovuti alla necessità del sopravvivere. Ricordo una frase di Moni che ne descrive il mood “..noi che galleggiamo in una continua deriva in cui non si vede più la sorgente e di cui non appare ancora la foce”. I siparietti dedicati alle storielle di madri/padrone, di commercianti fantasiosi (paté di allodole), di rabbini disinvolti e di varia umanità Jewish sono fonte di grande intelligente divertimento. Oltre al grande Moni Ovadia non possiamo non ricordare i bravissimi orchestrali: Maurizio Dehò al violino, Paolo Rocca al clarinetto, Albert Florian Mihai alla fisarmonica e Luca Garlaschelli al contrabbasso.