Teatro Stabile delle Marche con il patrocinio dell’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”
SOGNO DI UNA NOTTE D’ESTATE
di William Shakespeare
traduzione Patrizia Cavalli / regia Carlo Cecchi / scena Roberto Bivona e Carlo Cecchi / costumi Sandra Cardini / luci Stefano Barbagallo / consulenza musicale Nicola Piovanicon Carlo Cecchi, Luca Marinelli, Dario Iubatti, Simone Lijoi, Roberto Bivona, Fabrizio Falco, Barbara Ronchi, Sofia Pulvirenti, Gabriele Portoghese, Davide Giordano, Cecilia Zingaro, Silvia D’Amico, Valentina Ruggeri, Federico Brugnone
Teatro della Pergola
POSSESSIONE UNIDIMENSIONALE PER TEENAGERS
L’ira capricciosa di Oberon, a cui Titania rifiuta di concedere il “vago fanciulletto” indiano che trattiene presso di sé come paggio, cancella i confini fra la dimensione quotidiana e quella magica. Sogno e veglia, buio e luce intrecciano i loro rami. Il sortilegio irrompe con furia nell’ordine del mondo (“i venti sdegnati suggono dal mare contagiosi vapori che, rovesciandosi in pioggia sulla terra, gonfiano ogni striminzito fiumiciattolo fino a farlo tracimare fuori dagli argini, e il verde grano è costretto a marcire; nei campi inondati dalle piene corvi e sparvieri divorano le carogne delle bestie morte, e cancellati son tutti i sentieri”), perfino la luna, “grande artefice delle maree, pallida d’ira, impregna tutta l’aria d’umidi umori”. Si sovvertono le stagioni: incongrue brine cadono nel grembo vermiglio della rosa appena sbocciata, “primavera, estate, autunno, inverno van mutando la loro consueta veste”.
Tempo e spazio ne risultano stravolti; quel mondo dentro il mondo che è la Notte (regno di Oberon e Titania) prende il sopravvento, permettendo alla qualità onirica dell’esperienza individuale di imporsi, e ai fantasmi inconsci, agli ancestrali reperti mitologici, di materializzarsi. Per volontà di Oberon e svagatezza impudente del folletto Puck, Titania e i quattro giovani ateniesi (Ermia, Elena, Demetrio e Lisandro) che s’inseguono nel bosco in preda a contrastati e divergenti affanni amorosi, cadranno vittime di un filtro: il succo di un fiorellino colpito dal dardo di Cupido, “prima bianco-latte, poi purpureo per la ferita d’amore ricevuta”, che, spremuto sulle ciglia di chi dorme lo fa cadere innamorato del primo essere vivente che si trova davanti al suo risveglio.
La passione viene così indagata come forma di follia e fonte di angoscia, come accecamento interiore talmente irrazionale da rendere vano ogni tentativo di resistenza (la vita stessa sembra dipendere dal possesso dell’amata/o), nonché come idolatria e patetica, futile perdita di sé (Elena dichiara al maldisposto oggetto del desiderio di voler essere la sua cagnetta fedele). Visto che spesso l’amore non è che la nostra volontà di soffrire, Elena persevera nella sua sindrome paranoica anche quando si trova contesa da Demetrio e Lisandro, ipotizzando in modo melodrammatico una cospirazione tendente a umiliarla.
Mentre i quattro s’impaniano nel fitto scambio di ripulse, recriminazioni, dichiarazioni appassionate, andando “per il folto della selva bruna, per rovi, orti e valloni, tra fulmini e tuoni”, Titania, aprendo gli occhi dopo un sonno improvviso, è presa da insano languore amoroso per un “mostro tutto orrore”: l’inconsapevole, pacifico, ingenuamente vanesio tessitore Nick Bottom (capitato nell’affollatissimo bosco per partecipare alle prove di una recita), trasformato da Oberon in una creatura dalla testa asinina. L’ispido pelo grigio, la pulsazione forte, calda delle vene del collo, il muso dalle narici umide, i grandi occhi mansueti, soggiogano la bella Regina delle Fate sciogliendone le membra (“come incantato s’è il mio occhio a codesto sembiante”), mentre le sue piccole ancelle alate si inchinano allo sgraziato uomo-bestia e, comandate da Titania, vanno a “cercar per lui gioielli in fondo al mare, cogliere more ed albicocche e mirtilli, rubare il miele nei lor favi all’api, strappare le ali multi-colorate alle farfalle e farne ventaglio”.
Dispiace dire che nell’allestimento di Carlo Cecchi questo materiale fatto di tenebra e meraviglia in perenne metamorfosi risulta parecchio diluito. Si perde quasi del tutto l’elemento notturno e incantatorio: l’azione è circoscritta da tre gigantesche e rigide lenzuola (o pannelli o schermi) sorrette da mollettone rosse, cornice in sé anonima entro la quale né l’orchestrina, né le luci poco significative riescono a modellare le mutazioni e malie che contaminano e risucchiano la sfera del reale. Né aiutano il coinvolgimento le fate in tutù assai canterine, che immaginiamo poggiate su un carillon estrapolato da una novella di Hoffmann (privo però di ogni odore sulfureo), o il Puck da discoteca munito di parrucca bianca, occhiali neri e marsina di plastica colorata, o ancora i quattro giovani impegnati in dispute che stranamente assumono toni petulanti da soap opera, o i puff colorati che i vari personaggi utilizzano per azzuffarsi o per giacervi, o la pomposità convenzionale delle due coppie reali avviluppate in manti rossi o verdi. I richiami alla guitteria e meraviglia di ogni rappresentazione popolare (e la presenza di Cecchi in scena come capocomico) convergono, invece, ad approntare un modello esemplare della farsa “Piramo e Tisbe”. Cadenze partenopee, teste di leone, veli di fanciulle, spade finte, tombe di Nino, equivoci lessicali, lampadine avvitate su un’asse di legno posta in proscenio e, soprattutto, le prestazioni formidabili del gruppo di giovani attori (in particolare Luca Marinelli e Dario Iubatti), contribuiscono alla fisicità esilarante della recita nella recita e all’evocazione del fantasma di Sik-Sik, povero illusionista da teatrini di infima categoria, artefice di fragili, necessarie magie fatte di bauli difettosi e lucchetti smarriti.