Amleto di William Shakespeare
Adattamento e regia Maria Grazia Cipriani
Scene e costumi Graziano Gregori
Suono Hubert Westkemper
Con Alex Sassatelli, Elsa Bossi, Giacomo Vezzani, Nicolò Belliti, Giacomo Pecchia, Carlo Gambaro, Jonathan Bertolai
Lo spettatore che ritenesse di assistere alla tradizionale rappresentazione dell’Amleto potrebbe rimanere sulle prime disorientato dall’audace lettura cui la regista Maria Grazia Cipriani ha sottoposto il testo shakespeariano.
Scompaiono personaggi chiave come Orazio e Fortebraccio, sacrificati sull’altare del meccanismo immaginifico, sapientemente ricreato dalla compagnia del Teatro Del Carretto, che fa di Amleto un nevrotico scacchista oppresso dall’inquietante fluire di folgoranti e tumultuose visioni mentali.
Le pedine, con cui il giovane danese conduce il suo gioco di vendetta, non sono altro che marionette del tutto speculari agli attori che, attraversando gli squarci di tendaggi purpurei, irrompono sulla scena qualificandosi, tramite il bianco delle loro vesti, come spettri evocati dal principesco delirio.
I moti dell’animo di Amleto – oscillanti fra il dolore per la perdita del padre, la volontà di vendicarlo e soprattutto il rancore nei confronti della figura materna, di chiaro stampo edipico di matrice freudiana – ne fanno un protagonista assoluto che più volte vibra vanamente, confermandosi eroe della titubanza, il suo pugnale sullo zio usurpatore.
Singolare la scelta, ma perfettamente compatibile con lo sforzo di dar corpo all’immaginazione del principe, di presentare Claudio, nuovo re di Danimarca, come perennemente dedito all’ubriachezza, mentre la moglie – cognata Gertrude assume i tratti di una psicolabile che non disdegna l’abbandono alla lussuria.
Momento di vero spettacolo la morte che Amleto ha indirettamente provocato: quella della giovane Ofelia, che ormai ai confini della follia, sembra quasi scomparire e dissolversi sotto una cascata di petali bianchi, emblematico richiamo alla sua purezza.
È la “Marche funèbre pour une marionette” di Charles Gounod la colonna sonora sul cui leitmotiv si esibiscono sei buffi scheletri in una danza grottesca, probabile omaggio alla Skeleton Dance di disneyana memoria o alle più recenti produzioni di Tim Burton.
È nel duello finale, rievocato prima dalla finzione della scacchiera e poi dal coinvolgimento diretto degli attori-spettri e del protagonista, che il giocatore, nonché vero regista del suo onirico dramma, compie l’ultima, decisiva mossa: abbattere tutte le pedine che cadono come “residui ingombranti d’uno scacco completo”.
Un plauso all’apparato sonoro magistralmente orchestrato da Hubert Westkemper che, ben avvalendosi del supporto di ottoni, lame, percussioni, carillon e persino di un iniziale tributo ad Arancia Meccanica, scandisce ed accompagna la già forte tensione scenica.
Omaggio, quindi, alla regista per la libertà dimostrata nel saper raccontare un Amleto che va al di là di ogni rappresentazione ortodossa, omaggio a Maria Grazia Cipriani per la maestria nel guidare gli attori in un delirio onirico ove la realtà scompare e il palcoscenico diviene teatro della follia.