Teatro del Carretto
AMLETO
da William Shakespeare
adattamento e regia di Maria Grazia Cipriani
scene e costumi di Graziano Gregori
suono Hubert Westkemper
luci Angelo Linzalata
con Alex Sassatelli, Elsa Bossi, Giacomo Vezzani, Nicolò Belliti, Giacomo Pecchia, Carlo Gambaro, Andrea Johathan Bertolai
Teatro della Pergola
DANSE MACABRE NELLA STANZA DI AMLETO
Se la Danimarca è “una prigione con molte celle e sotterranei”, la segreta più inaccessibile è la mente di Amleto: una stanza rettangolare formata da mura di mattoni rossi, che possono diventare, a seconda delle situazioni e del variare della luce, drappi o tendaggi attraversati dal canto della Regina (l’aria di Almirena dal “Rinaldo” di Haendel: “lascia ch’io pianga mia cruda sorte”), pietra dalla consistenza metallica contro la quale urta Ofelia, lacerti vulvari nei quali spariscono i personaggi, passaggi oltretombali attraverso i quali si produce l’infinita duplicazione dello Spettro paterno, fenditure del castello incendiate dal fuoco delle torce, varco sul buio dell’obitorio che accoglie il corpo nudo e bianco della fanciulla annegata.
In questo spazio tutto interiore, l’Io fantasmatico di Amleto rimette insieme i frammenti della storia macabra e ossessiva costruita dalla sua percezione del mondo circostante e degli eventi. Un mondo “uscito dai cardini”, inquietante alterato grottesco, dove sentimenti e parole si deformano, dove i movimenti dei corpi si plasmano intorno alle proiezioni del Principe.
Le figure umane, bianche e immobili, sono inizialmente disposte nella stanza come per una partita a scacchi, e sui loro “doppi” (statuine lignee colorate poggiate su una cassetta marrone) infierisce crudelmente Amleto. I fantasmi (tali perché defunti e perché, forse, mai esistiti così come li percepisce e rappresenta il protagonista), o meglio i revenants, ossessionano Amleto per indurlo a raccontare la propria ossessione. O probabilmente è Amleto stesso a chiamare a sé le proprie creature odiate e amate per prolungare il suo fitto, avvitato ragionare, il continuo avvicinarsi ed eludere il grumo sordo del dolore: la necessità (creata dall’interazione con l’Immagine del Padre, e dall’assimilazione degli elementi costitutivi di questa figura, fondamentalmente estranei alla personalità del Figlio) di reagire con violenza al putridume che ammorba Elsinore (il giovane rifiuta di spogliarsi del suo colore notturno perché anche il cielo gli pare solo un mucchio di miasmi venefici), contrapposta al dubbio, all’esitazione, all’inutilità di ogni gesto di fronte all’inafferrabilità e alla mancanza di senso della vita. La vendetta viene quindi avvertita come un peso opprimente, che genera desiderio di fuga e di oblio. Questa antinomia interiore, questo dilemma irrisolto, è la radice dell’insofferenza e dell’atteggiamento ondivago e delirante (a volte puerile e solipsistico) di Amleto nei confronti di ciò che vive e si muove intorno a lui. Così, la psiche alterata e rancorosa del Principe accomuna Ofelia e Gertrude, rivolgendo alla prima moniti e accuse destinate alla seconda.
E’ impressionante come la regia geniale di Maria Grazia Cipriani (aiutata dalla meravigliosa compagnia del Teatro del Carretto e dallo scenografo/costumista Graziano Gregori) riesca a estrarre dal dramma ogni nucleo tematico e a renderlo evidente costruendo un labirinto di metamorfosi fiabesche, spesso maligne. Si passa di emozione in emozione, attraversando una complessa rete di riferimenti, manipolazioni, suoni di inquietante durezza, cortigiani che evocano l’incarnato livido, malato, delle figure di Kirchner, attori che riproducono con talento sublime la guitteria esilarante e cattiva della farsa elisabettiana, grida di corvi che ci trasportano in una terra remota punteggiata di alberi neri e spogli, la Danse Macabre sospesa fra Hans Holbein e il musical newyorchese (con scheletri danzanti abbigliati come Fred Astaire, che possono anche far venire in mente l’apparente leggiadria di certi sequenze di “Mulholland Drive”, lambite da fiamme infernali).
In questo jardin des supplices sartrianamente privo di uscite, è Elsa Bossi a rompere un’asse nella mente dello spettatore (esperienza rarissima), in modo da annullare i confini fra interno ed esterno, pensiero e visione, percezione del proprio corpo e meccanismo pulsante della rappresentazione. La voce della straordinaria attrice dà forma ai bassi richiami originati dalla lussuria della Regina come alla sua disperazione lirica (un filo sonoro, ondeggiante e luminoso), e al candore stupefatto e ferito dell’adolescente Ofelia. Sarà impossibile dimenticarla, già in preda alla pazzia – le braccia legate alla vita da un lenzuolo arrotolato, manovrato da una sorta di infermiere – mentre nel suo frantumato delirio si avvicendano la nostalgia del padre e il racconto della propria morte. Lo sguardo cerca i fiori purpurei che le vergini chiamano “dita di morto”, e quel suono che non è più voce ma singhiozzo si trasforma in vertiginoso sussurro rauco, appena udibile e straziante. Un esile fantasma che rivive il momento fatale, quando, intrecciando corone di ranuncoli vicino al ruscello, là dove il salice sghembo riflette i suoi rami nel cristallo della corrente, scivola nell’acqua e, per un poco, scorre via leggera, finché gli abiti inzuppati la trascinano verso il fondo, a una morte fangosa.
Il resto, mormora lentamente Amleto, è silenzio. Una volta cadute le mura di Ilio (e ancor più di Tebe), e insieme ad esse l’attesa di un nemico esterno e la possibilità stessa della tragedia, resta solo un cielo vuoto di Dèi, e una terra sordida e illimitata, impastata di sangue e desolazione, dove Ecuba è una teatrante cenciosa dalle mani adunche che ricompone gli echi di Miti trascorsi, il cui senso appare nello stesso tempo ineludibile e inattuabile.
luciatempestini0@gmail.com