Berlino nel 1947. E’ un dialogo tra due uomini, Reiter e Gruber. Il primo è un professore di filosofia di fede ebraica che tutte le mattine alle 6,30 va dal tabaccaio ad acquistare il solito sigaro, il secondo è il proprietario della tabaccheria. Reiter, che è tornato da poco tempo dall’America dove si era rifugiato per sfuggire alle persecuzioni naziste, sottopone l’interlocutore ad un vero interrogatorio per saper chi è, da dove viene, dove ha trovato i soldi per acquistare il negozio, un vero supplizio che Gruber, uomo mite, sopporta. Ma l’incontro quotidiano si trasforma presto in uno scontro sempre più serrato tra vittima e carnefice fino a che il tabaccaio, messo alle corde, si toglie la maschera del venditore che deve compiacere i clienti e reagisce con tale determinazione e lucidità da ribaltare i ruoli. Ora è lui il carnefice che incalza Reiter dichiarandosi orgogliosamente (anche lui) ebreo e lo accusa di aver disertato la causa espatriando mentre lui è rimasto a soffrire le angherie naziste pur cedendo talvolta ad un umano opportunismo. La differenza fra i due è nel senso dell’appartenenza, dell’identità.
Il professore che si attiene al Libro e ha abbracciato la causa del sionismo sta partendo per la terra promessa dove lotterà a fianco di chi si batte per costruire lo Stato ebraico (Israele). Gruber invece rimane consapevolmente in Germania perché si sente tedesco, un ebreo tedesco che combatte a viso aperto l’antisemitismo domestico. E’ lo scontro di due visioni dell’esistenza che sconcerta lo spettatore e lo porta a sospendere ogni giudizio.
Il testo di Amos Kamil, carico di tensione emotiva, scava la condizione umana per svelarne le recondite debolezze, le fragili barriere morali. Non ci sono certezze perché, come dice Renoir “Il tragico nella vita è che ognuno ha le sue ragioni”. E’ l’affermazione del relativismo inteso come epifania del dubbio. “Il venditore di sigari” è uno spettacolo che ci emoziona, stimola l’intelligenza, dunque ci arricchisce. Bravissimi gli attori Gaetano Callegaro e Francesco Paolo Cosenza. Assolutamente funzionali le belle scene di Francesca Pedrotti.
P.S. Per i cristiani è difficile capire il legame che unisce l’ebreo della diaspora con quella che considerano la terra promessa, la terra di Palestina. Per cercare di capire le differenze rispetto alla cultura cristiana, dobbiamo risalire al concetto di identità (sconosciuto per il cristiano) che per l’ebreo è legato indissolubilmente alla terra di Palestina da dove nel 70 d.C. furono scacciati i suoi avi. L’ebreo della diaspora, in altre parole, prima ancora di sentirsi parte integrante della propria patria (inteso come nazione) si sente legato al gruppo etnico e alla terra d’origine (Palestina/Israele). E’ la religione dunque, non la patria, il collante che fa degli ebrei di tutto il mondo un solo popolo. L’ebraismo è una religione che si attiene strettamente al Libro (l’Antico Testamento) dove la Palestina con Gerusalemme è l’unica terra benedetta (non altre). Il Libro cioè non viene contestualizzato, come s’è fatto con il Vangelo. La religione per l’ebreo non è un fatto privato legato alla spiritualità personale com’è per il cristiano che vive liberamente la propria religiosità ovunque si trovi. Per l’ebreo la religione è legata alla terra e diviene – se la terra viene a mancare (come è successo per diciannove secoli) – essa stessa Nazione. Nasce così il sionismo, movimento politico-religioso, che si dà fin dal suo nascere una missione precisa: far ritornare gli ebrei della diaspora nella terra promessa.