Il “Malinteso” di Albert Camus è la storia di due assassine: madre e figlia, prigioniere del loro albergo in una regione fredda e sperduta di un’Europa senza speranza, che nutrono i loro sogni uccidendo e rapinando i viaggiatori di passaggio. La tragedia diventa epica quando uno di queste vittime si rivela – ormai a cose fatte – essere il figlio dell’una e il fratello dell’altra, tornato dopo un’assenza di vent’anni, e senza farsi riconoscere dalle due donne, a cercare le proprie radici. Si è detto spesso che “Il malinteso” è il dramma della castrazione, della negazione maschile spinta alle estreme conseguenze tanto da infrangere uno dei tabù originari della natura: l’impossibilità per una madre (e per una sorella) di riconoscere il proprio sangue.
E’ una tragedia assoluta, ma non tanto per l’efferatezza degli omicidi fino al mostruoso epilogo, quanto per l’apparente levità con cui vengono commessi: non c’è un futuro per le due donne, che non sia la favola di un “altrove” pieno di sole a cui non mostrano mai di credere fino in fondo. Esiste invece la routine di una ribellione sorda che si ripete meccanica, come fosse solo un aspetto delle faccende domestiche di un vecchio albergo sull’orlo della chiusura: l’accoglienza del malcapitato, il tè drogato, la spoliazione dei beni, il corpo fatto scivolare nel fiume che si incarica della sepoltura, almeno fino alla prossima chiusa, dove andrà ad impigliarsi con quello dei suicidi. L’odio delle due donne non è mai rivolto alle vittime, è costantemente rivolto alla vita, alla negazione stessa della propria femminilità fonte di vita: per la madre che arriva a sopprimere l’uomo che ha generato, per la figlia che dalla carezza vitale dell’amore non è mai stata sfiorata.
Nella riduzione drammaturgica proposta, “La madre”, la vicenda viene riproposta cercando di attualizzare non la storia – riproposta in modo fedele – ma il cinismo nel quale è immersa. Al posto dei suicidi che chiudono il dramma di Camus, troviamo una figlia conduttrice televisiva di un programma dedicato alle “Menti criminali” e la madre, arrestata e condannata per i suoi omicidi, chiamata come ospite d’eccezione. Al male come obbligazione senza futuro, viene aggiunta la sua rappresentazione mediatica. Nell’intervista tra madre e figlia la vicenda viene lentamente e progressivamente fino allo svelamento finale, come in un gioco maledetto in cui emerge sia la potenza della tragedia, sia l’irrimediabile indifferenza di noi spettatori.
La negazione della vita, la soppressione del ruolo maschile, la rinuncia al futuro non si accontentano di essere vissute in una implosione di furore sordo. Appaiono, e come per un ulteriore grado di maledizione, di fronte ad una telecamera, si permettono finalmente di esistere.
(Paolo Fallai)
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