Mamma mia ci piace. Così: d’istinto. Potremmo fingere il contrario, dissimulare, cercare di mantenere un contegno anche se “Dancing queen” ci fa salire una voglia incontrollabile di dimenarci senza pudore. Potremmo prendere le distanze dagli Abba per uniformarci all’apparenza che l’opinione pubblica sembra ostinata a mantenere, anche se in realtà questa colonna sonora è ormai il nostro personale antidoto contro le botte di depressione. Potremmo opporre resistenza a questo ritmo travolgente trattenendoci composti in un angolo, adeguarci nostro malgrado all’idea spesso dominante che l’arte debba essere difficile per avere valore, bollare questo spettacolo come superficiale perché facilmente accessibile, estraneo all’artificiosa costruzione che spesso impone alla cultura la visione intellettuale. Potremmo… Ma commetteremmo un errore, sopravvalutando noi stessi e sottovalutando quest’opera e il suo potenziale.
Perché Mamma Mia, pur offrendosi a noi senza pretese, contiene tutti i temi della grande epica classica, tutti i personaggi di una Commedia dell’Arte un po’ rivista, a ben guardare tutti gli intrecci della fiction televisiva moderna. Contiene la gioia e il dolore in una dimensione assolutamente reale, ma li colora entrambi di una tinta vivace. La leggerezza è la chiave, ed è tutt’altro che superficiale. È l’arte sottile di non prendersi troppo sul serio, è l’intento concreto di dare alla vita un colore più acceso, restituendo alla semplicità lo spessore che le è dovuto. È un invito al sorriso, ad emozionarsi di nuovo. È lo sforzo, o il dono, di stupirsi della vita ogni giorno, trasformando le paure in un’incontenibile voglia di vivere, che ci aiuti a cogliere ogni occasione come se fosse l’ultima possibile.
Magari non usciremo da teatro arricchiti da qualche profonda riflessione filosofica o morale, ma ne usciremo tutti un po’ figli dei fiori, più giovani, e più vivi, disposti anche se solo in modo passeggero a lasciarci guidare dalle emozioni, dopo uno spettacolo in cui il pensiero è superfluo e fondamentali sono le sensazioni.
La prima sensazione è il colore, che dà forma all’intensità dell’emozione rendendola visibile. I colori vivaci degli anni della musica disco e dell’amore libero si confondono a quelli brillanti dell’isola greca che fa loro da sfondo, messi in risalto dal bianco luminoso della casa in calce che, riportando con pochi tratti l’essenza della Grecia cicladica, a questo musical un po’ anacronistico fa da scenografia.
La seconda è la vitalità: il ritmo trascinante, l’allegria coinvolgente con cui quest’opera è rappresentata, la musica che ti entra nella testa dopo la prima strofa nonostante una resistenza strenua, e che ti porta prima a tenere il tempo con il piede, come il miglior tormentone dell’estate, e poi, senza che tu possa reagire, a saltare in platea dimenticando ogni freno inibitore.
La terza è la simpatia immediata che suscitano i protagonisti e gli attori che li mettono in scena, che hanno fatto dell’autoironia il loro stile di vita e che con quella, ancora prima che con la potenza vocale, ci catapultano nel clima di questa commedia. Perché non è solo il talento di questi attori nel ricreare i loro personaggi ben caratterizzati a farci cogliere ed apprezzare lo spirito di questo spettacolo, ma ancor più la loro capacità di mettersi completamente in gioco, lanciando una sfida senza tempo alle tute stretch in lurex e restando figli dei fiori, sul palco e fuori.
All’angolo di Piccadilly rivive così uno scorcio di Grecia arcadica ferma al dopoguerra ma prepotentemente invasa da un’esplosione scomposta degli anni ’70, in cui tutti noi possiamo trovare il coraggio, la follia, la leggerezza di essere le “Dancing queen” della nostra storia. Se non per tutta la vita, almeno per una sera.