Basato sul film di Pedro Almodóvar
Adattamento di Samuel Adamson
Traduzione di Giovanni Lombardo Radice
Regia Leo Muscato
Scene Antonio Panzuto
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Alessandro Verazzi
Suono Daniele D’Angelo
con Elisabetta Pozzi, Alvia Reale, Eva Robin’s, Paola Di Meglio, Alberto Fasoli, Silvia Giulia Mendola, Giovanna Mangiù, Alberto Onofrietti.
“Per fare un uomo ci voglion vent’anni, /per fare un bimbo un’ora d’amore, /per una vita migliaia di ore, /per il dolore è abbastanza un minuto, /per il dolore è abbastanza un minuto”.
Questi splendidi versi della canzone “Per fare un uomo”, di Francesco Guccini, esprimono perfettamente la tragedia dell’appassionata protagonista della pièce “Tutto su mia madre”.
Il testo, liberamente ispirato al film del celebre regista spagnolo Pedro Almodóvar, narra la storia di Manuela, una donna argentina che perde quanto ha di più caro, il figlio Esteban nel giorno del suo diciassettesimo compleanno.
Nell’adattamento teatrale di Samuel Adamson si realizza il sogno del giovane scomparso: rendere la madre interprete di se stessa in una pièce incentrata sulla sua vita.
L’ouverture della rappresentazione è affidata proprio ad Esteban cui Manuela aveva, in vita, precluso ogni “porta d’ingresso” nel suo mondo, nel disperato tentativo di nascondergli la reale condizione del padre, divenuto trans col nome di Lola.
Il ragazzo, nonostante fosse stato mortalmente ferito da un’auto all’uscita di uno spettacolo teatrale, più volte fa la sua comparsa sul palcoscenico come se, arrivando direttamente dall’aldilà, potesse aiutare gli spettatori a ricomporre le tessere della storia.
E non è questo il solo artificio che differenzia “Tutto su mia madre” dall’omonimo film: l’espediente della metateatralità coinvolge pienamente il pubblico sia se si misura con problematiche toccanti ed attuali sia se sorride grazie agli spassosi monologhi della sboccata trans Agrado.
La dirompente forza di Manuela che, rimasta sola, parte alla volta di Barcellona per rivelare al marito la sorte del figlio di cui ignorava persino l’esistenza, ben viene resa dall’impetuosa recitazione di Elisabetta Pozzi, cui questo ruolo ha giustamente valso la nomination come migliore attrice protagonista per il premio UBU 2011.
Nella città di Gaudì, la donna abbraccia nuovamente la prostituta Agrado, che tenta di rendere agradable la vita altrui, interpretata da una Eva Robin’s strabiliante che ben sostiene il confronto con Antonia San Juan, scelta per la medesima parte da Almodóvar.
Entrambe le amiche, alla ricerca di un nuovo impiego, incontrano sulla loro strada Rosa, una suora la cui ingenuità è fin troppo accentuata nella pièce.
È l’attrice teatrale Huma Royo, che nella rappresentazione di Leo Muscato incarna tutti gli eccessi delle star, inclusa una perfezione maniacale che la rende insopportabile, ad offrire a Manuela il lavoro di assistente personale. Un paradossale incontro che unisce la madre disperata e la donna colpevole della tragica fine di suo figlio.
È proprio la protagonista di “Un tram chiamato desiderio”, infatti, responsabile di avere causato la morte del ragazzo avendogli negato l’autografo richiesto, inducendolo, così, alla fatale corsa dietro la sua vettura. Ed è l’attrice a trovare nella donna argentina, l’unica persona capace di sostenerla nei suoi frequenti cedimenti e nelle profonde sofferenze frutto di un amore infelice per una giovane collega eroinomane.
Manuela però ben presto la abbandona: per lei è tempo di assistere Rosa, la nuova vittima di Lola, il padre di Esteban. Il trans infatti, eludendo come diciotto anni prima le proprie responsabilità, aveva abbandonato, dopo una notte d’amore, la suora, in stato interessante e contaminata dall’AIDS. Al termine di una difficile gravidanza, vissuta al riparo dallo scandalo, ben protetta nell’appartamento di Manuela, Rosa dà alla luce un bimbo, un nuovo Esteban, per poi spegnersi tristemente in un letto d’ospedale.
Le musiche di Daniele D’Angelo sottolineano, in modo veramente incisivo, solamente il momento più toccante della pièce: Lola, prima di morire, scopre nel figlio appena nato il vero senso del vivere che la droga e i tanti problemi d’identità le avevano impedito di cogliere.
Ad Alberto Onofrietti il merito di far riflettere, emozionare, comprendere le innumerevoli difficoltà ed il tormento di un’esistenza “diversa”.
La rappresentazione si conclude con gli struggenti versi di García Lorca, recitati da una magnifica Alvia Reale-Huma Rojo: “C’è gente che pensa che i figli si facciano in un giorno, però ci vuole tempo, molto, per questo è così terribile vedere il sangue di un figlio versato per terra. Un ruscello che scorre per un minuto e pure a noi è costato anni. Ho immerso le mani nel sangue e le ho leccate con la lingua, perché era mio, gli animali li leccano no? Non mi disgusta mio figlio, tu non lo sai cosa sia. In una custodia di cristallo e topazio metterei la terra imbevuta del suo sangue”.