Tutto è detto fin dall’inizio: un uomo ha perso il lavoro, moglie e figlio se ne sono andati. E tutto nello stesso giorno: “il trasloco più veloce del mondo” dice sorridendo amaro alla fuga della sua famiglia. In casa è rimasto solo: due lampade, una abat-jour una sedia sfondata, un mucchio di vestiti che ossessivamente ripiega. Di ciò che è stata la propria vita rimangono gli abiti: li odora, ci dorme abbracciato, li interroga. A dare corpo a quest’uomo – un corpo sempre ansimante, eccessivo, spavaldamente ferito – è Maurizio Battiston, pluripremiato attore di cinema e teatro, in un’interpretazione di rara efficacia. Lo spettacolo è “18 mila giorni” (che sommati fanno 50 anni, l’età del protagonista), in scena al Quirinetta di Roma fino al 18 marzo, per poi toccare nelle prossime settimane numerose città, tra cui Ravenna (19 marzo), Parma (23-24), Aosta (29), Bologna (30), Verona (2 aprile), Sondrio (3).
Ha perso il lavoro, si diceva. Sostituito da un giovane tanto perbene che prima si installa nel suo ufficio e poi, come un pitone (e “Il pitone” è il sottotitolo dello spettacolo), lentamente lo divora. Alla perdita del lavoro, e con essa della sua identità di breadwinner, ecco anche quella degli affetti. Un’esistenza spezzata, d’improvviso. Inizia così un dialogo solipsistico con il poco che lo circonda, dando luogo a ricordi, fantasie, drammatiche consapevolezze del proprio fallimento. A guidarlo in questa scomposta ricerca di senso è la presenza in scena di Gianmaria Testa (straordinario autore molto più amato all’estero che in Italia, come talvolta capita), che riempie questo spazio interiore ammutolito di voce calda e rugginosa, canzoni intime e lontane, suoni di chitarra di intensa evocazione. Una presenza discreta e continua, che offre a Battiston occasioni di aperture emotive e momenti di intensità raddoppiata.
Lo spettacolo fila via per quasi due ore senza stanchezze, affastellando scoppi di comicità e memorie familiari: l’emergere di un ammasso interiore ben espresso dal testo di Andrea Bajani, autore di romanzi già di sicuro successo, che però in alcune parti indulge a una frammentarietà forse più adatta alla pagina scritta che alla drammaturgia. A tessere parole, recitazione e musica è la regia di Alfonso Santagata, uno dei più importanti esponenti del teatro di ricerca italiano, che porta nello spettacolo i tratti caratteristici della sua arte scenica: l’indagine degli abissi personali, la fisicità, l’attualità dei temi, le ossessioni. “Bisogna far finta di essere morti per non farsi trovare. Quando riesci a non sentire più niente, sei salvo” dice il protagonista ricordando una frase del padre, in un episodio della guerra. Lo stesso fa il protagonista: non scende più in strada, rintanato nel suo isolamento, compagno di morti e di fantasmi.