Perdere a carte, una partita dietro l’altra, è una maledizione. Se poi a batterci è una principiante, cui abbiamo insegnato a giocare, può davvero dare alla testa. È quello che succede a Weller, ricercatore di mercato in pensione, uomo di per sé già abbastanza umorale e irritabile. Si professa campione di “gin rummy” (una sorta di ramino), istruendo alle delizie del gioco Fonsia, un’anziana divorziata di famiglia puritana. E la signora le vince tutte, una partita dietro l’altra, in un crescendo di rabbia e fortuna, di imprecazioni e rancori. Che lentamente svela l’isolamento e le bugie dei due anziani, ospiti in una modesta casa di riposo a spese dall’assistenza pubblica, abbandonati dai figli, rimasti semplicemente soli.
Weller e Fonsia sono i due protagonisti della tragi-comedy “Gin Game” di Donald Lee Coburn, scritta nel 1976 e subito premiata con uno straordinario successo a Broadway (con oltre 500 repliche) e poi in tutto il mondo. A mettere in scena la pièce alla “storica” Sala Umberto di Roma (fino a domenica 11 marzo) sono due attori di straordinario talento, Paolo Ferrari e Valeria Valeri, che l’avevano già interpretata agli inizi degli anni novanta. La regia di Francesco Macedonio ne esalta le qualità, riducendo la scenografia a pura ambientazione, introducendo qualche sapiente intermezzo musicale d’antan, concentrando tutta l’attenzione su di loro. E sulla loro prodigiosa capacità di disegnarci i personaggi attraverso pochi e decisi tratti: frasi ripetute, espressioni del viso, pause e piccole manie.
Sono due anziani che si cercano, per solitudine e sottile cattiveria: lei sofferente di diabete, lui aggredito da “una forma virulenta di vecchiaia”. Il testo è tutto giocato sul filo dell’ironia, con punte di sincera comicità e di crudele sarcasmo. Giocare a carte in veranda, sempre attorno allo stesso tavolo posto al centro della scena, è l’occasione per raccontarsi l’un l’altro una vita migliore di quella vissuta: quella vera, infatti, è stata ben più modesta e deludente. Ma lentamente tutto si svela, e affiorano collere, frustrazioni, turpiloqui maschili e ipocrisie femminili. Si continua a sorridere, certo, ma sprofondando nella rabbia reciproca, che cancella l’affabilità di lui e il candore di lei. Un passaggio emotivo che Ferrari e Valeri lasciano emergere con naturale leggerezza: assieme a loro scivoliamo, quasi senza accorgercene, dalla comicità della commedia alla brutalità del confronto. E questa è l’emozione più viva che la maestria e l’esperienza degli attori regalano al pubblico.