uno spettacolo scritto e diretto da Monica Guerritore
luci Pietro Sperduti
produzione Fondazione Corriere della Sera, Spoleto54 Festival dei Due Mondi, Compagnia Mauri Sturno
con Monica Guerritore, Lucilla Mininno
L’IMAGO MORTIS DI ORIANA
Dalle profondità grigie, inconoscibili, di un disabitato appartamento newyorchese le cui pareti si innalzano fino a creare l’illusione ottica di una lievissima convergenza, un’ombra prende a poco a poco forma. Si tratta di una Oriana Fallaci post-mortem, che vaga fra le librerie coperte da teloni di plastica trasparente e le latte di vernice abbandonate qua e là dagli imbianchini. Il cappotto leopardato dalle linee morbide copre un austero abituccio scuro. Nell’atmosfera inizialmente rarefatta e appena spettrale (da jamesiano “angolo ameno”), la scrittrice vive l’eterno ritorno della sua rabbiosa contrapposizione al conformismo, al pensiero politically correct che si traduce in acquiescenza verso società dove i diritti civili (soprattutto quelli dei cittadini di sesso femminile) non sono contemplati, alla guerra, agli attentati, alle stragi. E racconta, attraverso la voce calda e aspra di Monica Guerritore (sembra provenire dalle viscere della terra, dai lutti remoti e vividi dell’antichità, dal sangue dalle urla dallo strazio della pianura di Ilio, eppure è soggetta al controllo ferreo, rigoroso di un’intelligenza artistica che forse tocca qui la sua acme), il culto della parola che rifugge la cronaca, che non si adagia, non si accontenta di un insufficiente resoconto dei fatti, della loro apparenza, bensì li rende veri, palpabili, per mezzo della loro ricreazione incessante e appassionata, mimetica. Così, l’odore di limone che emana il medico dell’obitorio di Città del Messico e il disgusto legato ad esso (connesso a sua volta all’uso del disinfettante da parte delle SS nei campi di concentramento), giungono al significato esistenziale privato e collettivo agendo sull’esperienza sensoriale e suscitano un corto circuito emozionale che rende indelebile la memoria della narrazione.
Monica Guerritore ha anche il merito di assemblare un testo spesso raffinato, che alterna l’invettiva e l’ardore epico (magari sarebbe il caso di limitare proiezioni – i pozzi di petrolio del Kuwait in fiamme, le mille e troppo sgargianti luci di New York – non essenziali e in contrasto stridente con il mood della scena) al dolore causato da avvenimenti privati: in particolare la perdita della madre, quel lento sfinirsi consumata dal cancro, il bel volto sempre più esangue, le belle mani sempre più affilate, l’impossibilità di parlare, gli occhi – infine – così chiari e lontani. E la sofferenza atroce, così acuta da essere vissuta nella carne, perché essendo noi la prosecuzione fisica delle nostre madri la loro morte non è che l’inizio della nostra. Una morte ancora più lenta, cui Oriana (che odiando la morte se ne cibava) arriva percorrendo tutte le stazioni di quel decadimento organico (la perdita dei capelli, quella dell’autonomia, della bellezza) che ha sempre orgogliosamente protetto dagli occhi del mondo, per non lasciare un’immagine di sé fragile e ammalata, troppo distante da quella storica, in qualche modo immutabile, della provocatoria, coraggiosa, riottosa Fallaci.
La pudica imago mortis finale che ci offre la Guerritore è dotata di una tale potenza e nello stesso tempo di una creaturalità inerme così struggente da rappresentare un silenzioso, indimenticabile omaggio alla Fallaci e al dolore umano.