Due performer, due chitarre elettriche, un toro meccanico e una stanza isolata. Sono questi gli ingredienti principali dell’ultimo spettacolo del caustico regista ispano Muerte y reencarnaciòn en un cowboy è uno spettacolo furente composto da due parti distinte che tuttavia scavano nella stessa direzione: l’annichilimento e la morte della società occidentale.
Nella prima la musica e il rumore la fanno da padroni. Si assiste a una concentrazione aggressiva di suoni derivati da due chitarre elettriche, in una drammaturgia dello spazio che alterna l’ampiezza del palcoscenico e l’asfissia di una stanza chiusa. Gli attori, Juan Loriente e Juan Navarro, vanno e vengono da questi due non-luoghi facendo suonare le chitarre elettriche saltandoci e sdraiandovisi sopra, sbattendole contro il muro, lottando tra di loro coperti solo da biancheria stropicciata e un cappuccio nero in testa a cui sono applicati dei sonagli.
Lo spettatore viene accolto in questo mondo sonoro distorto e ad alto volume, dove con una violenza detonante si mischiano il disturbo noise delle chitarre elettriche, il ciondolare dei campanelli, gli ansimi e il canto stonato degli attori, l’effetto acustico del toro meccanico più volte messo in funzione, il pigolare di alcuni pulcini, rinchiusi in uno scatolone e amplificati con un microfono. Un puot pourri uditivo e visuale, dove prevale il rumore e dove non mancano i riferimenti alla musica dal vivo e alle sperimentazioni di Stockhausen e John Cage.
È proprio al massimo di questa esperienza multisensoriale che uno dei due protagonisti si pone in piedi e a braccia aperte sopra il toro meccanico, quasi avesse conquistato il mondo intero, mentre alle sue spalle scorrono immagini sempre più veloci di paesaggi e panorami variegati. Ed è proprio in quel momento che avviene un mutamento, una reincarnazione. I due cowboys si rivestono con completi eleganti, occhiali scuri, stivali e il tipico cappello a tesa larga (strizzando così l’occhio ai due protagonisti di I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee). Si mettono comodi su due sdraio e bevendosi una birra cominciano a raccontarsi del più e del meno. Il suono virale lascia spazio alle parole asciutte, tutto si cheta, tranne le stoccate sempre più profonde che Garcia infligge ad una società borghese fatta di pregiudizi ipocriti e felicità falsificata.
La drammaturgia emotiva del suono e la razionalità logica delle parole sono alla fine due facce della stessa medaglia che rappresenta il troppo e il niente di una complessità umana portata e fatta “suonare” in scena.
Il teatro di Garcia non rinuncia mai alla provocazione. Come nei suoi lavori precedenti – Accidens (2005) o La historias de Ronald el Payaso de Mac Donald’s (2002) – troviamo animali vivi sul palco e un testo fortemente politico che attacca un società del benessere lacerata, annoiata, falsa che snatura persino le relazioni di coppia.
I polletti e il gatto diventano così un’allegoria del rapporto tra un mondo ricco e predatore e un universo povero e destinato a soccombere; la tensione, il rapporto d’amore e d’odio, la fisicità spogliata e quasi atletica dei due cowboys rimandano ad una continua lotta tra relazioni destrutturate; lo spettacolo si rivela in tutta la sua forza critica e dirompente.
Garcia cerca continuamente il conflitto con lo spettatore, ponendolo di fronte ad una visione della realtà univoca. Spetta poi allo spettatore prendersi la medesima libertà per comprendere che nello spettacolo oltre al versante politico c’è soprattutto una poeticità delle cose.
È questa la qualità più potente di un teatro che dimostra il coraggio di discutere e discutersi sulla scena, di “salire” su un toro meccanico, prendendolo per le corna e cercando di non cadere fino a quando è possibile, fino a vomitare.
La regia accusa solo qualche “incornata” nel ritmo e nella sequenzialità delle immagini, che a volte lasciano lo spettatore libero di non seguire più lo spettacolo, rischiando di allontanare più che far riflettere.
Nonostante ciò il “gioco della corrida” messo in scena da Garcia si gode dall’inizio alla fine, attraversando il mondo della pubblicità, infiltrata in tutti gli spazi della nostra esistenza e ormai sostituita alla politica e ai nostri governi e qui rappresentato da uno schermo che continuamente rimanda le immagini di ciò che succede sul palco e nella stanza isolata.
Si decade nel baratro di una crisi di valori e coscienze, cullati nell’ovatta del nostro assenso, tragico e grottesco al tempo stesso.
Ingresso : 18 € – 15