Orgia è un testo pericoloso.
Pasolini fa male, colpisce a fondo, perché dice ciò che non si vorrebbe mai sentire.
Orgia sbigottisce perché parla davvero di noi
È da anni che affronto la tragedia greca (Edipo re, Medea, Baccanti, Antigone), ora avverto la necessità di confrontarmi con una tragedia moderna. Scritta nel 1966 Orgia è la prima di sei tragedie, unica incursione di Pasolini nella drammaturgia. Nel suo Manifesto per un nuovo Teatro (1969) teorizzò il Teatro di Parola insieme antico e innovatore, dichiaratamente élitario e proprio per questo paradossalmente democratico. Opposto alla cultura di massa questa forma d’arte “democratica”, affonda le sue radici nella tradizione e in particolare nel teatro greco.
La notte che precede una desolata Pasqua padana, due coniugi piccolo borghesi vorrebbero vivere l’Orgia, il delirio preparatorio al sacrificio. La cerimonia, però, non ha nulla di sacro perché è priva del simulacro divino. E’ il tempo del silenzio di Dio.La verbosità del testo sembra alludere all’impossibilità del compiersi dell’azione, come se la parola fosse mascheramento, estensione, nascondimento. I protagonisti parlano per non agire, impotenti. Evocano il passato con nostalgia, ne parlano come di un Eden irrecuperabile, un luogo dove si comunicava solo “facendo qualcosa” e dove “quel silenzio era pieno di voci”.
La struttura sintattica del testo disegna gorghi, vortici. La parola detta, declamata, costruisce architetture complesse, una sarabanda che stordisce, appassionata e vitale. I protagonisti sono immersi in un tripudio di suoni, d’immagini evocate, avviluppati tra pulsioni, tese all’invocazione di un rimedio all’angoscia della loro esistenza. Parlano di sé come di “due vermi infelici” che decidono di dissiparsi all’Inferno e parlare la lingua della carne perché, ormai, le loro parole sono “poveri suoni che non dicono niente”. Sarà il corpo – metafora del corpo sociale – ad essere offeso, lacerato, straziato, immolato. Il corpo: squarciato nella speranza che questo sacrificio divenga “linciaggio fondatore” di una nuova società o almeno azione di condanna dell’”atroce innaturalezza del mondo”. Tuttavia nulla di Sacro, di salvifico o fondante sarà accaduto: i personaggi sono convinti, leopardianamente, che gli dei se ne siano andati, per sempre.
Mettere in scena questo testo, questa Passione senza Pasqua, senza resurrezione, un “Agnus Dei” senza redenzione, significa chiedere (o sperare di chiedere) allo spettatore una partecipazione, uno sguardo che Pasolini così suggerisce: “Vi prego, siate come quei soldati, i più giovani di quei soldati, che sono entrati per primi oltre il reticolato di un lager… E lì i loro occhi… Ah, vi prego, siate giovani come loro! … Ecco tutto. E, ora, divertitevi.”
Teatro Sala Fontana – Via Boltraffio 21 – 20159 Milano M3 Zara
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