La guerra è un enorme telo rosso che copre l’intero spazio scenico (una scatola interamente bianca): un mare in movimento, onde colorate che rievocano una mattanza, e lì in mezzo marionette urlanti e gridi di battaglia. Ma anche la guerra finisce, e nel lento ritrarsi del drappo scarlatto – scomparendo d’un lato, come nella vasta risacca di uno tsunami – ecco affiorare uno scheletro annerito, rimasto lì sotto a indicare l’assurdità e la morte. La capacità di fare immagini di Roberto Latini e della compagnia Fortebraccio Teatro (attiva da più di un decennio) è continua e sorprendente, e si conferma anche stavolta. Lo spettacolo è “Ubu Roi”, il “classico” del teatro mondiale scritto dal drammaturgo francese Alfred Jarry nel 1896, in scena al Teatro India di Roma fino a domenica 25 marzo.
Un’occasione per riflettere sugli archetipi del teatro, offrendo attrazioni e trovate, che Latini, forte del personale talento registico e della qualità espressiva propria e dei sette attori che lo accompagnano, sfrutta pienamente. Certo, il testo aiuta. Nel senso che è un’efficace allegoria del potere (la storia ruota attorno al personaggio volgare e vuoto di Padre Ubu, alla sua violenta ascesa al trono e alla successiva caduta), divisa in brevi scene: un testo aperto da ogni lato, a ogni interpretazione e ricomposizione. Lo sguardo di Latini è altrettanto ingordo quanto è Padre Ubu: affida a un indifeso Pinocchio incatenato, da lui stesso interpretato, il ruolo rigoroso di guida (di regista direttamente in scena), tessitore e testimone del succedersi degli eventi, per lasciare il campo circostante preda di una girandola di invenzioni, maschere (tutte uguali, inespressive, la cui energia è del tutto affidata alla maestria attoriale), numeri circensi.
Latini ci offre un teatro dell’esasperazione, in cui tutto è sul limite della forzatura: l’estrema cura del dettaglio (come i guanti rossi di Madre Ubu nella prima scena o le vere cornici che i personaggi di più alto lignaggio tengono attorno al volto) e le citazioni macbethiane (ma anche di gruppi storici della ricerca italiana come i Magazzini Criminali), l’esplorazione delle voci e l’ampio uso di amplificazioni, l’uso del corpo come contenitore di emozioni, spinto nei suoi eccessi fisici e nella sua identità plurale. Appaiono palloncini, piume, fiori finti, parrucche, ombrellini cinesi, scope su cui volare. E capita che a farci prendere fiato, in questa corsa urlata e autodistruttiva che è il destino di Ubu, siano iper-reali scenette d’amore, con una coppia di orsetti vestiti da adolescenti, alle prese con corteggiamenti e batticuori da cartoon. Un’eruzione della fantasia, insomma, che l’attore-regista esplica pienamente, ben sorretto dal gruppo degli attori e dalle luci evocative di Max Mugnai, le (intensissime) musiche e tappeti sonori di Gianluca Misiti, la scenografia sospesa di Luca Baldini, i meravigliosi costumi (che pescano da Kubrick al fetish) di Marion D’Amburgo.