di Henrik Ibsen
adattamento di Edoardo Erba
regia Armando Pugliese
scene Andrea Taddei
costumi Andrea Serafino
musiche e canzoni Paolo Coletta
produzione Pragma s.r.l. e Teatro Stabile d’Abruzzo
con Gianmarco Tognazzi, Lombardo Fornara, Bruno Armando, Franz Cantalupo, Fortunato Cerlino, Stella Egitto, Simonetta Graziano, Renato Marchetti, Antonio Milo
UN INDESIDERATO RITORNO ALLA NATURA
Un fondale di vetri semiopachi e tubolari metallici crea l’illusione di una fuga prospettica su non luoghi inidentitari, del transito e della provvisorietà, aperture simboliche su uno streben involgarito e precipitato nella cieca pulsione utilitaristica. Altre impalcature tubolari dotate di faretti blu delimitano gli ambienti della casa del dottor Storchi (Stockmann nell’originale) – fra cui una cucina marrone rosato dalle linee piatte e popolari anni ’60 – e del quotidiano locale, il “Giornale del Popolo”, più o meno incline alla bellicosità a seconda di temi e circostanze.
Bisogna districarsi faticosamente dalla confusione verbale e fonologica, dalla generale approssimazione gestuale del primo quadro, per riannodare i fili della trama ipermoderna di Ibsen. Superato l’impatto con figure più sciattamente caricaturali che grottesche (la moglie e la figlia di Storchi – generate dai futili schemi cinguettanti di una cinecommediola italiana contemporanea –, i giornalisti parabolscevichi, il marinaio vestito come Capitan Cocoricò – giaccone con bottoni dorati, berretto e pipa – saltuariamente impegnato in sconcertanti siparietti canori, stentorei quanto incomprensibili; si salva il Signor Achille di Lombardo Fornara, unica presenza davvero surreale e magnetica fra quelle che si es-agitano, o stanziano casualmente, in scena), si risale la corrente degli eventi che, nella cittadina termale protagonista del dramma, incrinano l’equilibrio delle relazioni di convenienza esistenti all’interno delle istituzioni e fra istituzioni e cittadinanza.
Storchi, direttore sanitario dell’Istituto Termale da cui dipende la prosperità di tale luogo “d’ombre e di dolci acque ameno”, si accorge della presenza nei corpi idrici di escherichia ed altri coliformi in quantità 24 volte superiori alla norma, in grado perciò di causare agli ignari turisti pielonefriti, meningiti e tossinfezioni d’ogni sorta. La preoccupazione iniziale del Municipio, della stampa e dei cittadini per l’attentato alla salute pubblica costituito dalla fetida poltiglia che scorre insidiosa nelle condutture comunali, si muta a poco a poco in angustia per il possibile allontanamento definitivo della danarosa clientela, e per un temutissimo ritorno alla natura (ossia alla coltivazione di alberi da frutto e alla preparazione di gustose confetture) e a condizioni di vita meno agiate.
Si procede quindi a minimizzare la situazione, a screditare e allontanare gli esperti, a sopire le dicerie, a procrastinare i lavori, a temporeggiare, a tranquillizzare l’opinione pubblica, a dimenticare (“forse, in futuro, verranno apportate modifiche, se necessarie”).
L’apologo ibseniano, vagamente calvinista nel suo incedere apodittico, rappresenta con urticante efficacia la rapacità indiscriminata che ha la tendenza a diffondersi con allarmante facilità e frequenza in tante nostre (e altrui) un tempo ridenti località. La recisione depensata del legame storico, antropologico ed etico con il paesaggio (magari a vantaggio del malaffare) è come un contagio, come un’immonda epidemia che nessun “nemico del popolo” additato al ludibrio delle genti sembra al momento in grado di arrestare.