Un consiglio sincero. Se volete emozionarvi a teatro il consiglio è di andare a vedere Banda (dis)armata, in scena fino al Teatro Roma fino al 29 aprile. MicheleLa Ginestra, Ettore Bassi e Sergio Zecca diretti da Roberto Marafante portano in scena (per il secondo anno di seguito dopo il successo dello scorso anno) ed esaltano con grazia la tenera commedia di Adriano Bennicelli dando vita replica dopo replica a uno spettacolo poetico e toccante che rimette in pace con sé stessi e regala preziosi attimi di riflessione.
Siamo nell’area della commedia all’italiana, ma quella vera degli anni d’oro del cinema, quando i grandi autori sapevano raccontare le storie della gente semplice, quando dietro il sorriso si celavano le piccole grandi tragedie quotidiane.
Qui siamo di fronte all’universo di tre perdenti a modo loro, Damiano, Iaio e Titta, molto diversi, ma tutti necessari perché tutti gli altri possano sentirsi normodotati. Damiano (Michele Le Ginestra) è un “non pensante” di una bontà spiazzante e di una tenerezza infinita che crede nell’amicizia e non riesce mai a imporsi su nulla e su nessuno; a 40 anni resta ancora innocente come un bambino, un puro e un semplice, un buono che ripone anche troppa fiducia negli altri, con una moglie rumena, un figlio che lancia continuamente in aria e un cv fatto di numerosi quanto inutili corsi di aggiornamento. E l’interpretazione raffinata e ricca di sensibilità di MicheleLa Ginestraregalano un quid in più al personaggio, che non scivola mai nel bieco (e facile) macchiettismo.
Iaio (un inedito Ettore Bassi) è invece costretto sulla sedia a rotelle e pulisce gli strumenti di Quirinale (simboleggiato dal monumentale orologio che troneggia sul palco che indica i tempi moderni), ma nasconde il suo handicap con la sua forza di volontà, con la sua rabbia infinita verso la mancanza di ethos, nei confronti di un mondo, una società fatta di raccomandati e di scorciatoie che passano attraverso le conoscenze.
Tito (un sublime Sergio Zecca) è un insegnante di inglese che non conosce la lingua (anche perché in realtà diplomato al conservatorio) che non ha mai avuto una donna, tenacemente disperato.
Ma la vita ci mette lo zampino: i colpi di scena in un testo toccante e poetico non mancano mai fino all’imprevedibile finale quando i tre uomini, un non pensante, un paraplegico, un cieco, metteranno in atto un’insurrezione disarmante e disarmata con risvolti improbabili. In uno spettacolo dal taglio cinematografico in cui il punto di vista dei protagonisti cambia di continuo quasi sovrapponendosi, ogni personaggio resta idealmente legato a un armadio personale, simbolo del suo mondo e del suo piccolo universo con cui legarsi agli altri. Fra momenti di esilarante comicità (amara) e tragica, di amicizia (che, come si fa tatuare Tito “non è un dono, ma una conquista”) e di valori veri, di tenaci riflessioni sulla società, arrivano risvolti inaspettati anche per il pubblico che esce dal teatro più rasserenato e forse un po’ più felice. In scena fino al 29 aprile al Teatro Roma della Capitale.