di Marivaux
traduzione e adattamento di Giuseppe Manfridi
regia Piero Maccarinelli
scene Giacomo Costa
costumi Gabriella Pescucci
light designer Umile Vainieri
musiche Antonio Di Pofi
produzione Fondazione Teatro della Pergola
con Antonia Liskova, Fabrizia Sacchi, Paolo Briguglia, Francesco Montanari, Emanuele Salce, Sandro Mabellini
produzione Teatro della Pergola (prima nazionale)
I “caratteri” delle sagome nere intente ad affannarsi e atteggiarsi in controluce su e giù per l’ipnotico fondale digitale, si mostrano subito in tutta la loro evidenza attraverso un linguaggio posturale estremamente espressivo capace di plasmare infingimenti maldestri, talvolta declinati in parodia o satira (alla La Bruyère) dei ruoli sociali, dei contrasti di genere, delle differenze di casta irrigidite in maschere ineludibili, delle trame ingannevoli – solo apparentemente “giocose” – di cui l’autorità (economica) paterna si serve per ammantare di illusioni romantiche un destino già scritto.
Nel grande viale alberato (un’immagine del giardino di Boboli) raffinate elaborazioni digitali generano continui, impercettibili cambiamenti della luce. C’è una sorta di algida malinconia nell’avvicendarsi delle ore del giorno e delle stagioni, nelle foglie che trascorrono da un abbacinante verde meridiano al grigiore di certe sere rannuvolate e umide, dal rosso autunnale alla tenuità delle mattine primaverili. La variabile luminanza delle idrometeore si esibisce in tutte le sue possibili sfumature. Cirrostrati, strati, nembostrati, cumuli, cumulonembi, cumulus congestus, si formano e si dissolvono con effetti incantatori, portando chi osserva in mondi ariosteschi o in una sofisticata graphic novel di Miyazaki.
Il respiro e l’indifferenza della natura, i suoi cromatismi mutevoli, avvolgono a distanza il salotto del Signor Orgone (due porte a imbotto, simmetriche, e quattro poltroncine d’epoca), originando un senso crescente di sofferenza, altissimo artificio e vacuità davanti a cerimonie, rituali, pantomime di codici espressivi (straordinarie tutte le caratterizzazioni, in particolare i cùpidi, sensuali domestici di Fabrizia Sacchi e Francesco Montanari), sottili geometrie lessicali che si configurano come altrettante gabbie, mistificazioni che dovrebbero lasciar trapelare l’identità dei quattro innamorati, purtroppo già soffocata da stereotipi e convenzioni. In questo allestimento ricco di felici intuizioni e sortilegi tecnologici, anche i costumi (di Gabriella Pescucci) – privi di vezzi settecenteschi eppure curatissimi in ogni dettaglio e dai meravigliosi colori bronzo e blu elettrico, verde o rosso (quello implausibilmente indossato da Lisa le si avvolge intorno come una conchiglia manierista) – diventano rappresentazione favolosa e crudele di una collocazione sociale e di una forma psichica immutabili.