Il ritorno, nuova pièce di Carlotta Clerici, prodotta dallo Stabile di Bolzano, è una storia a tinte (a tratti) autobiografiche che si muove con sicurezza fra collaudate atmosfere teatrali e cinematografiche, spaziando con libertà fra Cechov e Kasdan, fra Zio Vanja e Il grande freddo, cult degli anni Ottanta. Temi fin troppo abusati che vengono però declinati con piega malinconica e nostalgica: l’autrice (comasca e che ha scritto il testo quando viveva ormai da anni a Parigi) ambienta la storia in Francia sulle rive di un incantevole lago per raccontare l’ultima rimpatriata di alcuni ex amici quarantenni che hanno trascorso la giovinezza insieme e che sono stati divisi dalle diverse scelte di vita. Yann (Corrado D’Elia) ha sacrificato la sua vocazione da pittore alla gestione sciagurata di un albergo ereditato che sta per essere messo all’asta. All’hotel giunge anche Anne (Sara Bertelà), sua ex fiamma, diventata attrice di successo di sceneggiati televisivi. Il ritorno improvviso (con giovane moglie a seguito) del disinvolto seduttore Matthieu (Roberto Zibetti), diventato un imprenditore di successo sconvolgerà definitivamente i già precari equilibri fra i tre ex amici.
Il testo, piacevolmente verboso, si muove raccontando non solo un triangolo amoroso, ma soprattutto deludenti bilanci di vita, fra aspirazioni frustrate e fallimenti personali racchiusi in personaggi eclettici, ora fragili, ora superficiali, ora sensibili, ora illusi: ciascuno nella vita interpreta un ruolo, è intrappolato in un clichè che sembra non appartenergli realmente, alla ricerca vana di un equilibrio irraggiungibile. E allora si sogna, si spera, anche se solo per un momento, per un breve attimo. La regia di Marco Bernardi (direttore dello Stabile di Bolzano) porta sulla scena un testo ricco di risvolti interessanti che arrivano a toccare ogni spettatori in qualche modo, creando delle scene di taglio cinematografico in cui il salto temporale o emotivo viene sottolineato dalla cesura data non solo dalle luci, ma anche dall’aggressiva musica dei Nirvana, lasciando sempre spazio alla verbosità del testo piacevole e crudo, a tratti irrisolto. È un lavoro quasi ibrido, in cui si respira il tocco europeo, anche nelle atmosfere rarefatte di un certo cinema francese (Nouvelle Vague su tutti), nelle sottigliezze amorose, nell’apparente innocenza di certo ritratti nostalgici (anche nella figura dell’anziana ospite dell’Hotel), ma che in fondo racconta di un’umanità che potrebbe vivere ovunque.
A dare respiro ai personaggi una carrellata di capaci attori, l’ottimo Corrado D’Elia (che proprio qui al Teatro Vittoria ha portato per la prima volta il suo celebre Cirano nella scorsa stagione teatrale), uno Yann alla deriva esistenziale, biascicante e disperato, Sara Bertelà, la fragile Anne, Roberto Zibetti (già in Io ballo da sola di Bernardo Bertolucci), il cinico seduttore Matthieu. Tutti più o meno inconsapevolmente disperati, o condannati alla disperazione.