Su tre schermi (uno centrale e due laterali) fuggono e si ripropongono disegni, primaverili o estivi, di collinette e alberi colorati dalle silhouttes che ricordano gli abbecedari d’altri tempi. E’ un movimento incessante, gaio e depensato, assimilabile alle corse a piedi (lungo gli argini o sui prati) o a quelle in bicicletta assai caproniane (“com’erano alberati e freschi i suoi pensieri! Dischiusa la camicetta, volava – in bicicletta. Spariva, la bocca commossa, nel vento della sua rincorsa”).
Il volo di queste amene figure viene presto sostituito dalla bottega di un fiorista, che mantiene il tratto stilistico precedente e dà senso e particolarissima atmosfera alla storia d’amore fra un uomo e il garzone del fioraio medesimo. Le parole sono sostituite da un raffinato, complesso (a volte indecifrabile per il destinatario) linguaggio floreale: un ramo di ciliegio intrecciato a un ramo di melo, asfodeli, garofani, rose bianche ed ogni sorta di esotica o indigena ombrella, suggeriscono il desiderio di cose e avvenimenti toccati da un alito di incanto (di lievi arguzie, piccole malizie, impalpabili ironie), che resta vivo anche in circostanze difficili, oggettivamente sfavorevoli. Non a caso “Les Amoureux” di Peynet sono nati in una gelida sera del gennaio ’42 nel parco di Valence, là dove la banda cittadina, prima della guerra, teneva i suoi concerti dopo essersi più o meno comodamente sistemata in un kiosque à musique. In questa cornice, persino causticità, disincanto e doppi sensi presenti nelle canzoni napoletane interpretate da Gennaro Cannavacciuolo (ad es. “La pansé”) risultano mitigati, svuotati dell’aperta intenzione provocatoria.
Il secondo episodio propone strade di campagna delimitate da filari di alberi e una sensazione di nebbia autunnale, di storie arrivate al naturale declino, di frasi in cerca di scontro e risoluzione, di idiosincrasie e contrapposizioni stremanti, di impossibilità e malinconie accompagnate dalle note di Umberto Bindi. La gioiosità appena incredula del quadro precedente, suscitata dal “grand bal
du printemps”, viene sostituita dalle insoddisfazioni e acrimonie degli amori implorati, sofferti, traditi, eppure testardamente inseguiti, dall’ossessiva volontà di trattenere ciò che è già scivolato via travolto dalla noia, o non c’è mai stato. Come il povero Lello Riviera in “La donna della domenica” (così trepidante e assillante verso l’adorato e svogliatissimo Massimo da indurlo alla fuga), il giovane studente protagonista della vicenda cade nel frequente, madornale errore di provare e
manifestare il desiderio di incatenare l’amore (e l’oggetto di tale sentimento), di normalizzarlo sottraendolo alla dimensione necessaria dell’incantamento per chiuderlo nel recinto delle abitudini.
Troppo lungo, nonché guastato da clichés fastidiosi, atteggiamenti abusati e mossette da gay pride o da non eccelso varietà televisivo, il terzo episodio in cui un ragazzo confida i propri affanni al travestito del piano superiore, la cui bibbia è rappresentata dai testi (sacri) delle canzoni di Mina (era inevitabile citare ancora una volta l’Icona per eccellenza?).
Io non so chi sei
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