Si può ridere con “I fratelli Karamazov”? Si può sorridere mentre si contempla il parricidio, lo stupro, la malattia mentale? E, soprattutto, è giusto farlo?
César Brie ha deciso di non temere Dostoevskij, utilizzando un registro tragicomico, uno sguardo ironico e insieme compassionevole per raccontare le vicende di una famiglia che diventa l’archetipo di tutto ciò che di buono e di malvagio l’umanità può compiere.
Il suo “Karamazov” diverte lo spettatore mentre lo costringe a confrontarsi con i grandi temi del Bene e del Male, con gli uomini del sottosuolo e con le miserie quotidiane.
Nelle note di regia, Brie ammette il suo debito verso l’interpretazione di Michail Bachtin, della sua lettura dei Karamazov come di un romanzo polifonico, nel quale coabitano Platone e il romanzo d’appendice. E’ interessante che Brie citi Bachtin, perché proprio in quel saggio il critico russo afferma che “La specificità del mondo dostoevskiano in via di principio non può essere trasferita sulla scena: noi siamo sempre insieme agli eroi e vediamo soltanto ciò che vedono loro. Dostoevskij segue un eroe, poi lo lascia e va dietro ad un altro: anche noi ci attacchiamo ora a un eroe, ora a un altro e a turno ci accodiamo a loro. Un posto autonomo neutrale per noi non c’è, una visione oggettiva di un eroe è impossibile; per questo il palcoscenico distrugge la corretta percezione dell’opera. Il suo effetto teatrale è una scena buia con delle voci, e null’altro”.
Brie invece ci restituisce una scena in cui non ci sono solo voci ma corpi, in cui lo spettatore (così come gli attori che non lasciano mai il palcoscenico) è ora fuori e ora dentro la storia, in un continuo rimando di scambi prospettici che permette l’immedesimazione ma anche lo straniamento.
Immedesimazione e straniamento che sono ben rappresentati da tre manichini di bambino che aspettano il pubblico fin dall’inizio, che nella loro inquietante immobilità di legno mantengono su di noi lo sguardo di un’infanzia che soffre, simbolo forse più autentico dell’assurdità del male nel mondo. E non è un caso che Sigmund Freud abbia dedicato un saggio al romanzo dostoeveskijano. E’ nell’infanzia che si plasma il nostro rapporto col mondo, è l’infanzia il luogo dell’odio per il padre e dell’amore per la madre. E’ nell’infanzia che Smerdjakov, il figlio illegittimo parricida, ha iniziato ad odiare il padre. Ma anche l’infanzia dei tre Karamazov legittimi è stata vissuta all’insegna dell’abbandono e del dolore: il passionale Dmitrij, l’erudito Ivan e il candido Aleksej sono tutti avviluppati in una trama di odi, amori, rivendicazioni, risentimenti, dubbi e ricerca che sembrano il prezzo da pagare per una colpa non commessa. Al centro di questa scena sta lui, il vecchio Karamazov, egoista e buffone, sensuale e arido, al quale Cesar Brie conferisce una maschera grottesca, carnevalesca, che rimarca la sua inadeguatezza e incomprensione rispetto ai casi, spesso tragici, della sua vita.
Efficace e corale la performance degli attori (Mia Fabbri, Daniele Cavone Felicioni, Gabriele Ciavarra, Clelia Cicero, Manuela De Meo, Giacomo Ferraù, Vincenzo Occhionero, Pietro Traldi, Adalgisa Vavassori) che si muovono sullo sfondo di una scarna scenografia (curata da Giancarlo Gentilucci) come se fossero guidati dai fili dell’intreccio, fili che si materializzano nel finale quando tutti si trasformano in burattini, svelando la finzione scenica ma forse anche suggerendo un’impotenza del singolo a determinare il proprio destino. Funzionali le musiche originali di Pablo Brie e il disegno luci di Paolo Pollo Rodighiero., belli i costumi di Mia Fabbri e i pupazzi bambini di Tiziano Fario.