Saggio degli allievi del III anno del corso di recitazione
Regia Arturo Cirillo
Scene Bruno Buonincontri
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Sergio Ciattaglia
Musiche Francesco De Melis
Con
Massimiliano Aceti, Roberta Azzarone, Beatrice Bassoli, Karoline Comarella, Alessandro Cosentini, Aurelio D’Amore, Vittoria Faro, Marco Feroci,
Federico Horaldo Lima Roque, Michele Lisi, Chiara Mancuso,
Carlotta Mangione, Valeria Moccia, Salvatore Moricca, Cristina Mugnaini, Francesco Petruzzelli, Fausto Romano, Malvina Ruggiano,
Francesco Sferrazza Papa, Giulia Tomaselli
E’ forse un’idea bizzarra quella di far recitare ad un gruppo di diplomandi attori dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico “Napoli milionaria” di Eduardo De Filippo. Considero il teatro in “lingua” napoletana come una delle grandi ricchezze drammaturgiche del nostro Paese (penso, oltre che a De Filippo, a Petito, Scarpetta, Viviani fino ad arrivare a Ruccello e Moscato). Considero la lingua di questi autori, come una delle possibili lingue del teatro in Italia, una lingua che ha una storia scenica e una notevole musicalità. Dovendo lavorare con ragazzi originari di varie parti d’Italia ho pensato che la lingua di Eduardo fosse, tra tutte quelle che conosco della drammaturgia napoletana, la più possibile, sia per la sua origine borghese, sia per la sua connotazione tutta teatrale, ed inoltre lingua di un teatro che voleva essere, ed è stato, nazionale. Attraversare un testo, percorrendo i suoi tre atti, attraverso i quali i personaggi mutano condizione sociale e storica, oltre che esistenziale, vuol dire credo fare anche esperienza di cosa sia la narrazione a teatro, il raccontare, attraverso i corpi e le parole, le mutazioni e le contraddizioni dei personaggi. Eduardo aveva una somma sapienza nell’arte del narrare, lo faceva attraverso rapidi passaggi, con la ricchezza delle sue didascalie, con la sapienza di far convivere l’umoristico ed il sentimentale, e riuscendo ad attraversare molteplici convenzioni teatrali, e tipologie attoriali. Anche ricordandomi della mia esperienza di allievo dell’Accademia, avvenuta molti anni fa, ho pensato che fosse utile uscire da tre anni di studi teatrali cercando di abitare una delle grandi tradizioni del teatro, confrontandosi con un uomo di scena totale, non avendo paura di non essere napoletani ma di affrontarlo come una attore credo debba sempre fare: con una buona dose di sensibilità, sentimento ed immaginazione, inventando una propria lingua, scoprendo una propria tradizione. Da anni pratico un’idea del teatro napoletano che non sia retaggio solo degli artisti di Napoli, ma possa divenire repertorio per molti, attraverso un osservazione anche da lontano, partendo anche da un sentimento di estraneità.
Tra i tanti testi di De Filippo ho scelto questo perché dovendo, per obbligo didattico direi, dare spazio a venti attori mi permetteva, lavorando su due cast, di dare ad ognuno la possibilità di sentirsi parte di una narrazione collettiva. La parte enorme di Amalia è l’unica che viene recitata ogni sera da due allieve attrici differenti, una sorta di doppio personaggio, quello del primo atto, e quello del secondo, che alla fine, nel pianto riparatore e riconciliante si ritrovano in scena entrambe. La parte che è stata di Eduardo (Don Gennaro) ha subito vari tagli, sia perché mi sembrava giusto lavorare il più possibile su un senso di coralità, e di famiglia allargata, il vicolo e i suoi abitanti, e sia perché fatto oggi da dei ragazzi credo che il piano morale della vicenda si possa lasciare ancor più in sospeso, così come è totalmente in sospeso il suo finale, in levare, in attesa, che parla di qualcosa che dovrà passare ma che per ora è ancora lì, come una ferita aperta, come un male non dimenticato. Mi pareva inoltre interessante portare il testo verso una messa in scena meno naturalistica, sia per gusto personale e sia perché ritengo che Eduardo possa ormai anche essere letto così, essendo un classico, e “Napoli milionaria” lo è sicuramente. In questo lavoro il rapporto tra il dentro e il fuori, tra il “vascio” e il vicolo, è stato sventrato, vi è una soglia a dividere i due luoghi, in modo che vi possa essere una contemporaneità tra di loro. Anche le altre due stanze della famiglia Jovine sono divenuti luoghi abitati, volevo abolire l’idea di “quinta”, di “fuori scena”, ma lavorare anche su quegli spazi, fisici e temporali, in cui l’attore è nello spettacolo pur non essendo nell’azione, edificare dei luoghi di ascolto e di ricerca di un proprio stare, sia fisico che emotivo. Ecco dove si gioca, e con che cosa, questa “Napoli milionaria”.
Arturo Cirillo