Per 100 intensissimi minuti l’inesauribile autore-attore, da solo sul palco, sequestra il pubblico ricostruendo avvenimenti che vanno dal 1849 (la Repubblica Romana) fino ai giorni nostri. La sua galleria è affollata dei volti dei tanti giovani caduti, il loro coraggio, le loro speranze e le terribili sofferenze patite. Sono riflessioni, ricordi, interrogativi, resoconti che trasmette con la forza magnetica della sua parola e dei suoi gesti. Ogni monologo di Celestini è un viaggio attraverso la memoria e la sua parola trasforma la storia in immagine, apre e richiude squarci nel tempo. Con la sua ironia graffiante, con la sua grande intelligenza a far balenare il sorriso sulle tragedie, ma è una parentesi subito chiusa sopraffatta da un dolore infinito del corpo e dell’anima.
Ancora una volta Celestini si conferma un mostro di bravura. Ineguagliabile.
Nel suo mutevole registro interpretativo l’artista – perché Ascanio non è solo un grande attore – riesce, come nessun altro, ad imprimere al suo eloquio una velocità che stordisce, una ricchezza di colori che abbaglia.
Con “Pro Patria” Celestini festeggia, a suo modo, i 150 anni dell’unità d’Italia partendo dalla Repubblica Romana con precisi riferimenti a Garibaldi, Mameli, Pisacane, Saffi, lo stesso Mazzini tanti altri..
Un monologo di 100′ tra il “detenuto” Ascanio Celestini e Giuseppe Mazzini (interlocutore invisibile) svela molte falsità della storiografia ufficiale e si sofferma su quello che definisce i tre Risorgimenti (rivoluzioni), la Repubblica Romana del 1849 (che voleva governare “senza prigioni, senza processi”), la resistenza antifascista e il terrorismo degli anni 70. Tentativi tutti abortiti. Tre “rivoluzioni” dice Celestini, fatte dai figli e tradite dai padri.
Oltre a rivolgere le sue considerazioni Mazzini, il carcerato Celestini, costretto in una cella di due metri per due, essere senza identità, prepara la sua memoria difensiva in vista del processo che lo vedrà imputato di terrorismo e denuncia l’ingiustizia della giustizia oggi come ieri. Celestini dunque allarga lo spazio temporale saltando continuamente dall’Italia di ieri a quella di oggi, Paese, dice Celestini, nato nelle carceri “….e da un carcere con la porta chiusa si esce solo abbracciando la “controvertigine”, quella spinta inconscia che fa desiderare di lanciarsi nel vuoto, poiché quando “la porta della storia” si chiude “non si può che uscire dalla finestra”.
Fra i personaggi del racconto compare un secondino – detto Intoccabile – e un immigrato africano scappato dal proprio Paese in cui si sentiva imprigionato, per giungere in Italia e finire in carcere per davvero. E l’insostenibile situazione delle carceri in Italia viene da Celestini analizzata nelle sue varie componenti: il sovraffollamento (144 detenuti ogni 100 posti), la composizione antropologica (il 70% sono tossico dipendenti e immigrati), il merito (la metà dei detenuti sono in carcerazione preventiva). La soluzione afferma “non sta nel costruire altre galere, piuttosto nel capire chi ci sta dentro”. C’è però un punto importante nel racconto del grande affabulatore che merita un approfondimento.
Se ho capito bene Celestini mette sullo stesso piano quello che lui chiama i tre “risorgimenti”. E sembra voler sostenere che, come i giovani patrioti che hanno sacrificato la loro vita per un ideale erano allora considerati dei terroristi, così, per analogia, anche i brigatisti degli anni 70 saranno un giorno considerati vittime (forse) inconsapevoli di un ideale utopico. Spero di aver capito male anche alla luce dell’attentato di questi giorni a Genova rivendicato dal nucleo armato FAI (federazione anarchica informale), terroristi che non mi pare abbiano le stimmate dei “santi” rivoluzionari.