Al Teatro dell’Opera di Roma va in scena il Novecento con A midsummer night’s dream (Sogno di una notte di mezza estate) di Benjamin Britten tratto dall’omonima commedia di William Shakespeare: una scelta di cartellone azzardata forse? Niente affatto considerando anche che il pubblico ha mostrato di gradire uno dei capolavori (quasi tre ore) del compositore inglese nonostante non ne conoscesse con esattezza la musica. L’opera arriva nella Capitale in un nuovo, moderno allestimento dello scozzese Paul Curran che trasferisce l’azione, quanto meno degli aristocratici e degli artigiani, ai nostri giorni. E così il (non) sipario si alza su un museo, sull’inaugurazione (senza musica) con tanto di taglio di nastro di un’opera d’arte, una scala misteriosa che non a caso si anima degli spiriti della foresta cullandoli in ogni momento. Ovviamente è più che noto l’intreccio degli equivoci del Sogno: il re e la regina delle fate Oberon e Titania bisticciano a causa di un giovane paggio; lo spirito pasticcione Puck altera gli equilibri delle giovani coppie di innamorati ateniesi, mentre i comici sono alle prese con la messinscena grottesca e discutibile del Piramo e Tisbe in occasione delle nozze di Ippolita e Teseo. E anche in questo allestimento si sovrappongono i tre mondi della commedia attribuendo una certa dose di fascino magico alla foresta, di fatto animata e resa un personaggio totale celata o svelata attraverso la grande tenda centrale. Molto apprezzata dal pubblico la parte finale dell’opera con la farsa recitata dagli artigiani con inevitabili risvolti esilaranti, giocando anche su un certa esagerazione dei movimenti scenici. Al di là di qualche eccesso dovuto, la regia si mantiene sempre alquanto equilibrata, in bilico fra erotismo e compostezza, molto curata in ogni minimo movimento e in ogni gesto, anche nei momenti di maggiore affollamento del palco. Britten (che compose l’opera nel 1960) affermava e orgogliosamente che il libretto, scritto insieme a Peter Pears, non conteneva un solo verso che non fosse del Bardo, rivendicandone la costante fedeltà alle parole originali: anche se il libretto naturalmente fu snellito (da cinque a tre atti ad esempio) resta costante una certa agilità e naturalezza che rendono l’opera godibilissima in ogni sua parte: la felice partitura di Britten si traduce nella prestigiosa direzione dell’acclamato James Conlon, fra i maggiori direttori della scena internazionale (che torna a Roma dopo La bohème) attento a ogni sfumatura con energia e attesa quasi misteriosa senza tralasciare un pizzico di divertimento alla guida dell’Orchestra. Il cast (unico) in scena è notevole e davvero ineccepibile non solo per le innegabili qualità vocali, ma anche per le capacità interpretative e la presenza fisica adatta al ruolo (statuario Puck-Michel Batten, l’unico a recitare), da Lawrence Zazzo-Oberon alla bellissima Claudia Boyle (Titania, già Cunegonde nel Candide a gennaio), dal corpulento Francis Flute (Anthony Dean Griffey), all’irresistibilmente comico Nick Bottom-Peter Rose al celestiale il Coro di voci bianche (diretto da José Maria Sciutto). Scene e costumi molto colorati (un po’ di meno quelli moderni) di Kevin Knight, luci soffuse di David Martin Jacques. Una scelta di cartellone non scontata che si rivela una bella novità salutata con un successo anche dal pubblico per l’ultima opera in Teatro, prima dell’inaugurazione della stagione estiva alla Terme di Caracalla al via con Giselle sabato 30 giugno.