Il Teatro Vittoria di Roma nel cuore di Testaccio inaugura la nuova stagione con una monografia (proprio come faceva, fino a pochi anni fa, il Teatro Valle gestito dall’Eti) interamente dedicata ad Ascanio Celestini, poliedrico cantastorie dell’Italia. Si apre con Pro Patria. Senza prigioni, senza processi, un testo scritto, diretto e interpretato da Ascanio Celestini che sembra essere il suo personale tributo ai 150 anni dell’Unità d’Italia. La scelta stilistica resta quella più consona per l’autore romano, il monologo. Ed è un lungo, serrato, emozionante, appassionante, intenso monologo senza intervalli e che solo alla fine si trasformerà (con finale illuminante e spiazzante) in un breve dialogo, rivolto a Giuseppe Mazzini. Il protagonista (Ascanio Celestini su una scena scarna e nuda) è un detenuto qualsiasi, un “ladro di mele”, in procinto di preparare un discorso, che s’interroga sui limiti della giustizia (e non solo) attingendo e partendo alla storia risorgimentale italiana e che l’autore “rispolvera” con appassionate dovizia di particolari, popolandola dei fatti e uomini concreti, reali, vicini a noi. La lettura resta trasversale e l’analisi storica su Giuseppe Mazzini, l’anarchico Carlo Pisacane, i fratelli Bandiera o sulle donne del Risorgimento, è quanto mai appassionante nello stilare un’autobiografia dell’Italia (anche moderna) partendo dalla Repubblica Romana del 3 luglio 1849. Su tutto, domina però (l’agghiacciante) e naturale senso della controvertigine, il desiderio di fare il salto, di abbandonarsi e di lasciarsi andare in ogni momento storico. È uno spettacolo sulla storia italiana? Forse. Sulle tre rivoluzioni fallite? Probabilmente. Una critica nei confronti delle assurdità della legge, contro il sistema carcerario? Una difesa nei confronti dei reietti e dei disgraziati? Certamente. Senza dubbio Pro Patria è uno spettacolo che vive dell’inconfondibile stile di Ascanio Celestini (autore, regista, interprete unico), della sua verbosità, della sua disincantata e lucida analisi che, raccontata con un’aria apparentemente favolistica e colloquiale, apre uno squarcio sul malessere e sulle ingiustizie della società. Non si ride, si sorride a volte, ma sempre con una certa amarezza, ma si ascolta ogni singola parola e capite qualcosa in più sui mali della nostra Italia. In scena fino al 14 ottobre. Martedì 16 ottobre debutta il secondo spettacolo della monografia, La fila indiana (fino al 21) per proseguire con La fabbrica (dal 23 al 28 ottobre).