La vita è fatta di momenti speciali incastonati in una moltitudine di giorni sempre uguali, composti di piccoli gesti quotidiani, di azioni apparentemente insignificanti che riempiono i minuti, le ore, i giorni, gli anni, un’esistenza intera. E poi c’è il bisogno di rendere tutto unico, speciale, di trovare a ogni costo un senso “ulteriore”, per non sprofondare nell’oblio.
Lo spettacolo “Reality”, andato in scena ai Teatri di Vita di Bologna il 9 e 10 novembre prende le mosse proprio da una singolare esperienza che racconta una realtà documentata attraverso le piccole azioni quotidiane. Infatti, il pretesto di questa pièce è la storia di una donna polacca, Janina Turek, che non intende vivere senza lasciare traccia e, in un tentativo ossessivo e quasi folle di documentare la sua vita, edifica un imponente monumento cartaceo, fatto da 748 quaderni compilati per ben 57 anni con estremo rigore e precisione maniacale. Questa particolare vicenda è stata scoperta dal giornalista Mariusz Szczygiel, il quale ha dedicato un reportage e un libro – intitolato appunto “Reality” – alla storia di Janina e ai suoi meticolosi diari.
I due attori in scena – Daria Deflorian e Antonio Tagliarini – iniziano lo spettacolo dalla fine, ossia dal quell’11 novembre del 2000 in cui la donna muore di infarto per la strada. Ma questo decesso diventa presto una postilla metateatrale sulla difficoltà di interpretare la morte e quanto sia difficile (forse impossibile) renderla credibile. Nonostante il macabro argomento, l’inizio dello spettacolo è denso di ironia, pur mantenendo un approccio riflessivo su un argomento così delicato e universale. Questo incipit dà il via a uno spettacolo essenzialmente narrativo, nel quale i diari diventano un appiglio per tentare di penetrare nei segreti dell’essere umano attraverso l’intimità di una persona.
Quello che più colpisce è l’asetticità con cui Janina elenca gli episodi, anche insignificanti, della sua vita, attraverso un elenco numerato di azioni: telefonate ricevute (38.196), incontri casuali di persone salutate con un “buongiorno” (23.397), appuntamenti fissati (1.922), regali fatti, a chi e di che genere (5.817), partite a domino (19), programmi televisivi visti (70.042).
Sulla scena però il tentativo è di ripercorrere le tappe fondamentali del cammino di questa donna e cercare di immaginare anche gli stati d’animo che si celano dietro alcuni episodi.
E così la drammaturgia si sposta dal piano dei fatti a quello più delicato, della psiche, delle sensazioni immaginate dagli attori e forse mai esistite: come quel giorno in cui, varcando la soglia di casa, mentre si pulisce le scarpe sullo zerbino, Janine decide di trascrivere ogni azione svolta durante la giornata per il resto della sua vita; o come quella volta in cui, mentre consuma un pranzo qualsiasi in una giornata qualsiasi della sua vita, fuori, in Polonia, viene decretato lo stato d’assedio dal generale Jaruzelski; oppure ricordando quella domenica trascorsa in casa, da sola, a guardare la tv. Solo e unicamente fatti. Solo e unicamente realtà. Ma dietro di essi si cela una mancanza, una desolazione infinita che i performer in scena riescono a trasmettere alla perfezione. «Vivo o fingo di vivere?» scriverà la donna in una cartolina che spedirà a se stessa, suscitando considerazioni che vanno ben al di là di un elenco di fatti. E non è un caso che la bravissima Deflorian ci narri l’episodio della matita trovata a terra da Janine che, distraendola, le ha impedito di vedere Fidel Castro e sulla quale era scritto: «la vita è un punto di vista». E, anche se subito dopo l’attrice svela che l’episodio non è mai accaduto lo strale è lanciato, la frase si è instillata nella mente di chi l’ha ascoltata e la vita di questa donna ci appare come un punto di vista speciale, un modo di aggrapparsi profondamente alla vita e, nel contempo, rivela qualcosa di tragico, un profondo vuoto, un intimo sconforto che colpisce ogni spettatore proprio come se quel vuoto e quella desolazione fosse la propria. O forse perché in qualche modo lo è.