con Luca Barbareschi, Filippo Dini, Astrid Meloni, Chiara Claudi, Roberto Mantovani, Mauro Santopietro, Ruggero Cara, Giancarlo Previati
produzione Casanova Multimedia
Lionel Logue – Logoterapista australiano Luca Barbareschi
Bertie – Duca di York Filippo Dini
Elizabeth – Duchessa di York Astrid Meloni
Myrtle – moglie australiana di Lionel Chiara Claudi
Cosmo Lang – Arcivescovo di Canterbury Roberto Mantovani
Winston Churcill – Politico Ruggero Cara
David – Principe del Galles Mauro Santopietro
Re Giorgio V padre di Bertie e David Giancarlo Previati
Stanley Baldwin – Primo Ministro Giancarlo Previati
scene Massimiliano Nocente
costumi Andrea Viotti
luci Jurai Saleri
musiche Marco Zurzolo
regia Luca Barbareschi
Luca Barbareschi debutta al Teatro della Pergola, a pochi giorni dalla prima nazionale, con la versione teatrale del Discorso del re, straordinario successo cinematografico di David Seidler diretto da Tom Hooper, vincitore di un Golden Globe, 4 Oscar e 7 BAFTA.
Come di consueto Barbareschi affronta quest’opera come produttore, protagonista e regista realizzando un inno alla voce e all’importanza delle parole, che si dispiega tra storia, biografia, dramma e commedia. Il Discorso del re è la storia dell’incontro straordinario tra Albert (Filippo Dini), balbuziente Duca di York, sovrano d’Inghilterra col nome di Giorgio VI e Lionel Logue (Luca Barbareschi) il logopedista australiano che ricompone tutta la forza e il potere delle sue parole con una terapia rivoluzionaria.
La commedia è ambientata in una Londra surreale, a cavallo tra gli anni 20 e 30, ed è centrata sulle vicende di Albert, secondogenito balbuziente del Re Giorgio V.
Dopo la morte del padre, il timido e complessato duca di York non sarebbe dovuto salire al trono d’Inghilterra. Il primogenito era infatti Edoardo, che divenne sì re ma che, per amore di Wallis Simpson, abdicò neppure un anno dopo. A Bertie, o meglio ad Albert Frederick Arthur George Windsor, toccò il peso della corona e divenne sovrano con il nome di Giorgio VI.
Albert è un uomo atipico, un re molto amato dal popolo che porta con sé un gravoso fardello di costrizioni infantili, e un bisogno di affetto difficile da colmare nell’anaffettiva coppia di genitori regali.
Tutte le sue insicurezze sono espresse attraverso una balbuzie invalidante e impossibile da gestire nei numerosi e imbarazzanti discorsi pubblici. Questa stessa balbuzie lo rende inadatto a ricoprire il ruolo istituzionale ereditato dal padre, soprattuttoin un momento difficile della Storia: la vigilia del secondo conflitto mondiale. Per questo la moglie lo spinge ad affidarsi alle cure del logopedista australiano Lionel Logue. Il medico, o presunto tale, dai metodi anticonformisti, capace di sondare le anime e di medicarle, insegna al Duca di York come superare l’incubo di parlare in pubblico, con una cura a metà strada tra il laboratorio teatrale e la seduta psicanalitica che alla fine ridà ritmo, fiducia e potere alle sue parole e a tutti i suoi discorsi ufficiali.
“Il discorso del re nasce prima come testo teatrale, poi diventa un film – spiega Barbareschi – Il testo mette la parola al centro di tutto, e la parola appartiene al teatro. Interpreto Lionel Logue, un attore fallito che grazie alla potenza delle parole salva le istituzioni. Questa storia è un paradosso meraviglioso, una piccola rivoluzione fatta da un piccolo attore: Lionel Logue è logopedista per sbaglio, in realtà è un attore fallito che salva un re e nello stesso tempo tutta l’Europa. Riesce a donare l’uso della parola al fragile Bertie, facendo così in modo che diventi re e dichiari guerra ad Hitler. Ecco che un attore riesce a cambiare il corso dell’Europa. Secondo me questo spettacolo è una bellissima metafora dell’arte rispetto al potere.” L’edizione teatrale di Barbareschi non ha crediti nei confronti della versione cinematografica: “Ho visto il film anni fa, prima che uscisse in Italia e mi è piaciuto. Lo spettacolo però non ha niente a che fare con il film, il testo in teatro è più coraggioso perché al cinema sono stati tagliati i risvolti più spinosi della storia, come quello del fratello del re che diventa filonazista. Il mio personaggio, questo piccolo attore, cambia il corso dell’umanità. In fondo se Bertie non avesse imparato a parlare non sarebbe diventato re e non avrebbe potuto fare la dichiarazione di guerra, il famoso discorso del re contro Hitler. Lionel Logue ha un cuore grande perché aiuta il re a smettere di avere paura senza nessun tornaconto personale politico. E’ bella questa figura di attore-logopedista. Del resto i personaggi che interpreto devono sempre avere una motivazione per me, aiutandomi ad elaborare un percorso psicologico e a crescere spiritualmente ed intellettualmente, così è stato per quarant’anni di teatro.”
Orario spettacoli: dal martedì al sabato: ore 20.45, domenica: ore 15.45.
Prezzi biglietti interi: Platea: € 27 + € 3 (diritto di prevendita) € 30, Posto Palco: € 20+ € 2 (diritto di prevendita) € 22, Galleria: € 13,00 + € 2 (diritto di prevendita) € 15
Il discorso del re di David Seidler
La genesi della storia ha impegnato David Seidler per lunghi anni a conferma della complessità e della delicatezza del tema affrontato, l’autore ne ha ripercorso le tappe nell’intervista rilasciata al Dailymail nel dicembre 2010 alla vigilia dell’assegnazione degli Oscar.
“Il mio primo lavoro fu scrivere Tucker: un uomo e il suo sogno per Francis Ford Coppola, la storia del designer della Ford, Maverick Preston Tucker e la sua sfortunata sfida all’industria automobilistica con il suo rivoluzionario concetto di automobile.
Pensai ingenuamente che scrivere questo film avrebbe subito cambiato la mia vita (ci sono voluti dieci anni per farlo) e che poi avrei potuto scrivere tutto quello che desideravo (ma non è esattamente così che funziona).
Quindi, pazzo e quarantenne, ho letto ogni libro su Bertie che ho trovato. Non sapevo, mentre costruivo la storia, che cosa stessi cercando, ma ho continuato a annotare piccoli puntini sullo schermo radar per rispondere alla domanda: «Chi era Lionel Logue?»
Non molto è stato scritto sul logopedista di Sua Maestà, Lionel Logue, e di certo non nelle biografie ufficiali. Né si era parlato molto della balbuzie del Re, l’argomento sembrava essere fonte di profondo imbarazzo.
Oggi abbiamo fatto enormi passi avanti nel nostro rapporto con i portatori di handicap. Ma all’epoca di Bertie, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt non era mai stato fotografato in piedi e nemmeno seduto senza che le sue gambe colpite dalla polio fossero state prima discretamente coperte. Una gamba raggrinzita era segno di debolezza.
Bertie era balbuziente. E a quei tempi una cosa del genere rappresentava un difetto. Hai avuto un difetto di pronuncia, e quindi sei una persona difettosa. Non c’è da stupirsi che i Reali abbiano nascosto la cosa.
Eppure qualcosa, non ho idea di che cosa, l’istinto dello scrittore suppongo, mi ha detto che quella di Logue era la storia che stavo cercando.
Ho chiesto ad un amico di Londra di fare un po’ di indagini. Questo si tradusse nel guardare l’elenco telefonico, dove era presente il nome e l’indirizzo di un figlio di Lionel ancora vivo, il dottor Valentine Logue, eminente neurochirurgo in pensione di Harley Street. Nel film “Il discorso del re” è lui il ragazzo con il naso sepolto nei libri di testo.
Così gli scrissi – era il 1981, molto prima delle e-mail – e lui mi rispose che se fossi andato a Londra mi avrebbe parlato con piacere e mostrato i quaderni che il padre teneva durante la terapia del Re. Fu una benedizione!
Ma c’era un’avvertenza: l’avrebbe fatto solo se avessi ottenuto l’autorizzazione scritta da parte della Regina Madre. Scrivi a Sua Maestà? I miei amici americani riconobbero immediatamente da questo gesto le mie origini britanniche.
Uno scrittore americano avrebbe pensato: “Chi ha bisogno della Regina Madre??”. Ma essendo io inglese ho doverosamente scritto e atteso. E atteso. Una lettera che attraversa un continente e l’oceano due volte può essere piuttosto lenta.
Il vialetto che portava alla mia casella di posta era lungo e ripido. L’ho scalato molte volte al giorno sperando in una risposta. Poi, un pomeriggio… fresco di lacca rossa direttamente dalla cancelleria di Clarence House. Oddio… Ho fatto un respiro profondo e l’ho aperto. Gulp, era lì, dettata da Sua Maestà al suo segretario privato, e diceva: «Per favore, signor Seidler, non durante la mia vita. Il ricordo di quegli eventi è ancora troppo doloroso».
Questa lettera da Clarence House, e la mia reazione successiva, è quello che ha convinto i miei amici americani che sono inglese e debole. Aspettare? Chi in America attende per niente, in particolare una vecchia signora? Ma quando la Regina Madre chiede a un inglese di aspettare, egli aspetta. O finisce nella Torre di Londra, suppongo.
Inoltre, nel 1982 la Regina Madre era una donna molto vecchia. Quanto tempo avrei dovuto aspettare? Un anno? Due o tre al massimo? Non sapevo che avrebbe vissuto fino all’età di 101 anni.
Durante i 20 anni successivi ho messo da parte l’idea. Anche dopo la morte della Regina Madre nel 2002 non sono entrato in azione, altri progetti e obblighi avevano la priorità.
Ma alla fine del 2005 mi è stato diagnosticata una forma di cancro particolarmente inquietante (alla gola). Naturalmente ho preso male questo regalo di Natale, ma dopo tre o quattro giorni passati a compiangermi, mi sono reso conto che il dolore non mi avrebbe fatto bene. Abbassa l’immunità, e il sistema immunitario è il miglior amico di ciascuno.
Nel tentativo di smettere di pensare alle mie pene, mi sono immerso nel lavoro creativo. Questo perché ho pensato: “Beh, David, se non racconti ora la storia di Bertie, quando esattamente hai intenzione di farlo?”
[Breve estratto tradotto da David Seidler, How the ‘naughty word’ cured the King’s stutter (and mine, DailyMail.co.uk, 20 dicembre 2010
Note di regia
Dopo aver portato in scena Il Gattopardo, ho sentito il bisogno di approfondire la capacità del teatro nell’interpretare e rappresentare la società, soprattutto in relazione alla descrizione e interpretazione che la drammaturgia riesce a dare del presente e della storia, come forma conoscitiva superiore alle altre, per dirla con Harold Bloom “un teatro-mondo”. Ha ispirato la mia riflessione un ritorno a Shakespeare, a quel 1603 che segna una svolta storica per il teatro inglese; salito al trono, Giacomo I promuove un nuovo impulso delle arti sceniche, avocando a sé la migliore compagnia dell’epoca. A Giacomo I, Shakespeare dedica alcune delle sue opere maggiori, scritte per l’ascesa al trono del sovrano scozzese, come Otello, Re Lear e Macbeth, la più breve e più compressa di tragedie di Shakespeare. A differenza dell’introverso Amleto, il cui errore fatale è l’esitazione, gli eroi di queste tragedie come Otello e Re Lear furono sconfitti da affrettati errori di giudizio: le trame di queste opere fanno spesso perno su errori fatali, che sovvertono l’ordine e distruggono l’eroe e i suoi cari. Le tre ultime tragedie, che risentono della lezione di Amleto, sono drammi che restano aperti, senza ristabilire un ordine ma generando piuttosto ulteriori interrogativi. Ciò che conta non è l’esito finale, ma l’esperienza. Ciò a cui si dà maggiore importanza è l’esperienza catartica dell’azione scenica, piuttosto che la sua conclusione. Il salto al secolo scorso e alla nostra storia recente è possibile grazie all’opera di David Seidler.
“Il discorso del re” per me si inserisce in questo filone dove il teatro resta soprattutto un inno alla voce e all’importanza delle parole. La vicenda è ambientata nel XX secolo quando i mezzi di comunicazione di massa assumevano un’importanza capitale per il vivere quotidiano del cittadino, quando poche parole del Re via radio potevano donare un briciolo di rassicurazione alla povera gente, specie durante i conflitti bellici.
Tutta la vicenda è costituita da una incessante partitura dialettica che ricorda la necessità di adoperare le giuste parole da parte del potere, e forse proprio in questa epoca storica è una lezione che andrebbe ripetuta sovente, anche perché una storia acquista maggior valore se tramandata ai posteri attraverso un persuasivo impianto oratorio.
La commedia è ambientata in una Londra surreale, a cavallo tra gli anni 20 e 30, ed è centrata sulle vicende di Albert, secondogenito balbuziente del Re Giorgio V. Si parte dai fatti storici per addentrarsi in un dramma personale, senza abbandonare mai la Storia, che non è fondale sottofondo ma è presenza imprescindibile di ogni istante della commedia al fianco dei protagonisti.
Recentemente ne è stato fatto un film di grande successo pluripremiato con gli oscar ma in origine nasce come testo teatrale. Il discorso del Re sfrutta l’aspetto psicofisico della disarticolazione verbale per raccontare il rapporto tra il Paese colono e l’Impero per cui sacrifica i propri figli in guerra e dimostra come aneddoti nascosti nelle pieghe della Storia possano elevarsi alla potenza dell’epica, se narrati con perizia e ritmo. Il merito è dello sceneggiatore David Seidler (Tucker. Un uomo e il suo sogno di Francis Ford Coppola), che nella sua vita ha sofferto di balbuzie. Una commedia umana, sempre in perfetto equilibrio tra toni drammatici e leggerezze, ricca di ironia ma soffusa di malinconia, a tratti molto commovente, ma capace anche di far ridere. Non di risate grasse o prevedibili, ma di risate che nascono dal cervello e si trasmettono al cuore. Così come le lacrime non nascono da un intento ricattatorio ma dall’empatia, da una condivisione sentimentale di difficoltà umane.
E’ una bellissima storia sul senso di responsabilità e sulla dignità del ruolo, anche quando tale ruolo non è atteso né desiderato, sulla solidarietà familiare e sulla forza di volontà che permette di superare ostacoli apparentemente insormontabili. Albert, è il minore dei figli di Giorgio V e soffre di una pronunciata balbuzie, che è il lascito di un’infanzia poco amata, trascorsa nelle mani di una bambinaia che lo detesta, mortificata dall’imposizione di apparecchi ortopedici e dalla correzione del mancinismo. La balbuzie lo rende poco adatto al suo ruolo istituzionale in un’epoca in cui la radio comincia a modificare i rapporti fra il potere ed il popolo comune. Forse perché la famiglia reale gli è sempre apparsa piuttosto una “ditta”, dopo una gioventù dissipata al traino del fratello maggiore brillante e gaudente, si è formato una famiglia basata sull’amore e la solidarietà con una donna che non aspira alle luci della ribalta, ma che sarà perfettamente in grado di sostenerlo nei momenti difficili e di assumersi lei stessa responsabilità più grandi del previsto.
Proprio lei lo spinge, dopo numerosi tentativi falliti, a chiedere l’aiuto di un logopedista australiano dai modi inconsueti, con cui sviluppa un rapporto conflittuale che fa anche emergere da una parte la grande considerazione che Albert ha di sé e della sua posizione, dall’altra la possibilità che egli si trovi prima o poi a dover sostituire sul trono il fratello maggiore, invischiato in un amore sconveniente con una divorziata risposata e dal passato discutibile. La morte di Giorgio V rende più concreta questa possibilità che è però alto tradimento agli occhi di Albert. Il personaggio di Logue diventa il punto focale intorno a cui ruota il conflitto interiore di Albert. La scrittura del testo sottolinea il conflitto mostrandoci il logopedista, attore di scarso successo, ma appassionato scespiriano alle prese, sia come logopedista che come educatore e attore, con brani tratti non a caso dall’Amleto, dal Riccardo III e da La tempesta: tutte opere in cui un fratello minore non si preoccupa di commettere fratricidio per usurpare un trono a cui non aveva diritto.
La rinuncia di Edoardo VIII al regno in nome del suo diritto ad amare, porta Albert sul trono e contrasta efficacemente con l’accettazione da parte di questi della responsabilità di essere la voce che deve tenere unita la Nazione alla vigilia della seconda guerra mondiale. Per tale responsabilità Albert è costretto a richiedere nuovamente l’opera del logopedista, ma alla vigilia dell’incoronazione scoppia una nuova crisi. L’arcivescovo di Canterbury, geloso del credito che l’uomo riscuote presso il re, scopre che Logue, che non si è mai presentato come dottore, non è che un ex attore. Albert si sente tradito ma, in una scena memorabile, Logue, dignitoso e ironicamente irriverente si riguadagna la fiducia e la stima del re e lo accompagnerà fino al temuto discorso con cui Albert, ormai re Giorgio VI (Albert è nome troppo germanico per essere bene accetto nell’Inghilterra di quegli anni) annuncerà al suo popolo l’entrata in guerra guadagnandosi al tempo stesso il rispetto del governo e della nazione.
David Seidler con questo testo riesce anche a sottolineare le differenze fra i fratelli e le rispettive famiglie: Albert cammina a piedi, entra con la moglie in un ascensore, si presenta in incognito nella casa del logopedista; Elizabeth, la futura regina madre, prende il the con la moglie di questi. David, per breve tempo Edoardo VIII, entra in scena scendendo da un aereo che pilota personalmente; alla morte del padre piange tra le braccia della madre, non per la perdita ma per il rischio di dover lasciare la sua vita leggera. Lo incontriamo poco dopo al centro di una festa, in cui lascia l’incarico di padrona di casa alla sua amante e dove risponde ai richiami del fratello con l’insinuazione che questi voglia il suo posto. E’ la vicenda umana della ricostruzione storica che rende perfettamente l’idea dei due modi di porsi di fronte al dovere ed al potere.
Eccellente, preciso, determinante il peso che ha ciascun personaggio della commedia che oltre ai due protagonisti (Albert e Logue) riesce a rappresentare sapientemente il risvolto umano, psicologico, storico di tutti gli altri personaggi, la cura e la massima attenzione ai costumi ed alla scenografia renderanno a pieno la ricostruzione di tempi, ambienti ed atmosfere.
Luca Barbareschi