adattamento di Gaetano Aronica
regia Fabrizio Catalano
scene Antonia Petrocelli e Gilda Cerullo
luci Alessandro Pezza
costumi Antonia Petrocelli
produzione Laros
con Sebastiano Somma, Orso Maria Guerrini, Gaetano Aronica, Morgana Forcella, Roberto Negri, Alessio Caruso, Maurizio Nicolosi, Giovanni Vettorazzo, Fabrizio Catalano, Luca Marianelli
Il capitano Bellodi arriva in Sicilia da Parma durante l’inverno. Nella cittadina immersa in “una luce che è già lontananza”, tutta scorci di case intonacate a calce – collegate da una ringhiera leggermente obliqua in metallo scuro -, le alte sezioni laterali di muri solcati da ferite cinerine dai bordi di diaspro sanguigno lasciano immaginare vie storte e anguste, umide di paura e di dubbi, di sussurri, allusioni enigmatiche, tradimenti incompleti e agguati repentini.
Un paesaggio, compresa la campagna circostante, che diventa metafora di un’ibridazione mediterranea che si fa sperdimento e immobilità, vuoto e sfiducia nelle idee, qualunque idea di un ordine diverso del mondo. Di questo si nutre la mafia: di acedia, monotonia, ragionamenti capziosi, assenza di curiosità e prospettive. Della “mancanza di idee” (sovente vera e propria ostilità nei confronti di esse) che avanza, prolifera come un cancro in tutto il paese, diventando aberrante indifferenza collettiva o peggio: connivenza, servilismo sinistro e canino che grotteschi onorevoli esperti in comunicazione, mutuati da George Grotsz o dai romanzi freddamente apocalittici di Durrenmatt, inducono e blandiscono, perché la gente (il popolo) ha bisogno di ottimismo. Ha bisogno di utilizzare con parsimonia le connessioni sinaptiche, di transumare da un centro commerciale a uno schermo televisivo asservito al pensiero comune. Così, la “linea della palma” identificata dal profetico Sciascia si è dissolta, essendo ormai diventata la mafia corso naturale delle cose, avendo ingoiato e metabolizzato il tessuto economico italiano e gran parte della politica.
Il concetto stesso di democrazia si è sbriciolato. Si ha l’impressione che il frastornante vaniloquio politico (quello grigio e falsamente austero della tecnocrazia, e quello variopinto, spesso scatologico, del populismo) che invade ogni spazio quotidiano del singolo e della collettività, persegua lo scopo di farsi sostanza oppiacea atta a sedare e incanalare eventuali molecole di libero pensiero (attraverso il monito neocalvinista o l’invettiva becera di piazza) e nel contempo nascondere la verità di una condizione nazionale putrefatta e forse irredimibile, che nei fatti si cerca di procrastinare all’infinito.
Per questo riproporre “Il giorno della civetta” – in un allestimento appassionato e interessante (si perdonano volentieri alcune piccole ridondanze didattiche) dove spicca l’uso espressionista delle azioni in controluce -, e quindi la “voce” illuminista, l’intelligenza sardonica, elusiva, a volte lievemente grottesca di Sciascia, appare un’operazione civilmente necessaria che si pone fuori dal coro gracidante delle rane aristofanesche.