regia Gabriele Lavia
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
luci Giovanni Santolamazza
musiche Giordano Corapi
danzatrice Alessandra Cristiani
con Gabriele Lavia, Lucia Lavia, Riccardo Bocci, Giorgio Crisafi, Gianni De Lellis, Riccardo Monitillo, Woody Neri, Daniela Poggi, Dajana Roncione
produzione Teatro di Roma
Teatro della Pergola
I DUE INFERNI DI MARTINO LORI
Dopo la morte improvvisa della moglie (venerata, desiderata in modo febbrile), avvenuta in seguito a una brevissima malattia, l’esistenza di Martino Lori si scinde in due cosmogonie parallele. Uno dei mondi coincide con la terra di nessuno di un viale del camposanto coperto di foglie scricchiolanti, perso nella semioscurità opaca e indefinita, dove si erge il monumento funebre dedicato alla scomparsa (una figura di donna che parzialmente risplende, come bagnata dalla luna, e che suggerisce atmosfere gotico-vittoriane assimilabili a quelle aleggianti sul cimitero londinese di Highgate), accudito amorevolmente da Lori e sul quale egli si curva ricordando il passato che non passa mai, ogni volta daccapo, senza fine, torturandosi deliberatamente perché la sofferenza della rammemorazione è diventata l’unica forma possibile di vita, dopo aver fermato per sempre lo scorrere del tempo (“la vita gli si è come rarefatta” sussurra la governante).
Ricorda il tormento di non sentirsi amato dall’irrequieta Silvia – tormento che rivive, acre, nell’affabulazione rotta dell’uomo –, e la meraviglia, l’ebbrezza provate davanti al cambiamento improvviso di lei, a quell’abbandonarsi senza riserve al marito, mostrando di appartenergli come nessuna donna ha mai fatto (solo molti anni dopo gli sarà rivelato che quel repentino trasporto era dovuto al rimorso per l’adulterio consumato col senatore Manfroni). L’incanto suscitato dall’affiorare della sensualità muliebre si materializza in una visione di onirica bellezza: una danzatrice che lenta, serica, dischiude le membra similmente a un fiore tropicale tropicale o un’alga preraffaellita.
A fianco di questo grumo dolente, palpitante di antimateria, operano instancabilmente i propulsori della vita “reale”, pratica, utilitaristica, immemore, cinica e manichea, facendo transitare o sostare in pose rivelatrici e apodittiche le altre figure del dramma (Palma – la figlia adorata di Lori, che in realtà è il frutto della relazione di Silvia con Salvo Manfroni –, lo stesso senatore Manfroni, il marito di Palma, la Barbetti, la signorina Cei e altri famigli, tutti caratterizzati dai raffinati costumi anni ’20 di Andrea Viotti; colpisce in particolare un cappotto leggero di damasco boschivo, le cui sfumature marroni e grigie riprendono sia la pelliccia tortora che orna il collo e le maniche, sia le piume del cappello) all’interno di un salotto talmente vasto e metafisico da far venire in mente i drammi borghesi di Ibsen, o una più stilizzata raffigurazione piranesiana del carcere – un carcere senza uscita, illimitato e infinito –, o ancora l’opprimente Castello di Kafka, dove l’Essere smarrisce il proprio senso e la propria identità.
Mobili e superfici di questo vasto ambiente assumono lustre tinte metalliche nella luce incerta, mentre dietro la finestra a sezioni rettangolari che occupa un terzo del fondale si percepiscono i bagliori e il rimbombo di un temporale incessante, per poi virare verso sfumature più morbide, come avviene nel momento in cui si mostra allo spettatore il tavolo coperto di spumose fioriture nivee (forse Iceberg Climbing e rosa Virgo) in occasione delle nozze di Palma. In questo perimetro, che rappresenta l’intera società così come desidera apparire, Lori è un oggetto alieno, un reietto, un’entità molesta schiacciata anche fisicamente dal disprezzo di chi è convinto della sua consapevolezza (dell’adulterio, della falsa paternità) e addirittura connivenza finalizzata all’ottenimento di benefici personali. Gabriele Lavia è stupefacente nel disegnare con il ritmo autistico delle parole, e ancor più con le posture l’addolorata incapacità di Lori di comprendere l’aperto disprezzo altrui, la derisione insistita, cattiva che lo scosta, che avviluppa e allontana ogni sua iniziativa paterna o amichevole. Seduto su una sedia (in un angolo, per farsi piccolo, per non occupare troppo spazio, senza neppure guardare tutti coloro che corrono da una parte all’altra indaffarati), con l’abito da cerimonia e il viso terreo, piegato sul cilindro lucido, riesce a rappresentare col semplice silenzio l’inferno che i rifiutati portano nel cuore.
Delle molte visioni cariche di emozione e pause bergmaniane di intensità quasi materica che la regia, scavando con delicatezza ostinata e furore nel testo pirandelliano, porta in superficie, facendole vivere in uno spazio buio e liscio, l’ultima lascia senza fiato. I corpi eleganti e inerti dei notabili, rovesciati all’indietro sulle rispettive poltrone, emergono parzialmente dalla fitta tenebra in cui sono immersi grazie a luci coniche provenienti dall’alto. Reperti esemplari di una classe di sfrontati parassiti e ladri (anche di ingegno altrui), morta e già decomposta per via delle radici affondate nella terra malsana della necrofilofollia tipica dell’Arditismo bucesco, eppure inestirpabile e capace di riproporsi, mimetizzandosi in forme sempre nuove, nel corso della disgraziatissima storia patria. Muta latrante, pavida e arrogante nello stesso tempo, in cerca di legittimazione e protezione. In cerca, soprattutto, di un Padrone – un Idolo – di cui servirsi (e da dilaniare al momento opportuno, per sostituirlo lestamente con un altro più adeguato ai tempi e alle necessità), più grottesco e sinistro dei suoi adepti. Trattasi sovente di tragici mascheroni (in fez e nappina) dalle froge belluine, o imbonitori incipriati o scamiciati d’ogni età.