Lo spettacolo comincia con l’entrata in scena di tutti gli attori uno accanto all’altro che lentamente avanzano fino al proscenio muti con lo sguardo sperduto alla ricerca di uno status perduto. Bellissimo incipit che ricorda l’entrata dei sei personaggi di Pirandello, anche loro alla ricerca di una identità. E’ uno spettacolo che procede a macchia di leopardo, che alterna scene di assoluto valore, suggestive, poetiche, ricche di pathos ad altre troppo gridate da personaggi a mio avviso eccessivamente nevrotici (anche se quei comportamenti sono l’espressione del vuoto, della superfacilità, dell’inconsapevolezza, dell’irresponsabilità). Il linguaggio del corpo è importante per significare il non detto, ma la prosa di Cechov non ha bisogno di esegeti perché sa cogliere la realtà, quindi la vita nei suoi aspetti tragici e umoristici. Cechov è il più contemporaneo tra i classici, non quindi bisogno di essere attualizzato. Nel “Giardino dei ciliegi” infatti l’autore mette in primo piano la superficialità, rassegnazione, fatalismo dei componenti un’aristocratica famiglia decadente che si ritrovano dopo molti anni nella casa avita. Il motivo di questo ritorno al bozzolo (l’antica stanza in cui stavano allora i bambini), non è certo la nostalgia di un tempo passato. Non è un richiamo alle radici della purezza, della spensierata giovinezza, ma un più concreto problema: la vendita della casa e la tenuta che la circonda (il favoloso giardino dei ciliegi) per far fronte ai debiti contratti in tanti anni di sperperi. In quei loro discorsi sulla vuota quotidianità, in quell’allegria fuori tempo e fuori luogo, quel ridere, quegli atteggiamenti (apparentemente) felici, irresponsabili di Andreevna (una vita di passioni disperse), delle figlie e del fratello Leonid (una vita di dissipazione inerte) ricordano i protagonisti (loro però inconsapevoli) del gran ballo sul Titanic prima della fine.
La situazione della famiglia è una chiara metafora del decadimento di una società borghese che avendo disperso nell’agiatezza l’etica, i valori, il senso della vita, non può che sprofondare nelle proprie contraddizioni e nella propria vacuità. E’ un tempo che si conclude. L’unico che abbia un’oscura consapevolezza dell’ineluttabilità delle cose è Trofimov (interpretato dall’ottimo Fabio Mascagni) , lo studente fallito confusamente rivoluzionario.
Malgrado gli appunti fatti in premessa devo riconoscere l’eccellente regia di Paolo Magelli che ha privilegiato il realismo di Cechov senza trascurare la natura lirica della pièce.
Bella la scenografia di Lorenzo Banci attenta a rendere, nella sua semplicità, la forza dei ricordi e la malinconia del tramonto di una vita, di un tempo che finisce. Le musiche di Arturo Annecchino i costumi di Leo Kulas e il servizio luci di Roberto Innocenti danno corpo al panta rei, alla dimensione del tempo, della vita che scorre verso un destino segnato.
Ottimo il cast degli attori: Valentina Bacci ha interpretato il personaggio di Ljubov’ Andreevna esprimendo con grande padronanza scenica i diversi stati d’animo che il ruolo in quel momento richiedeva: irresponsabilità, dolcezza, commozione, rassegnazione. Mauro Malinverno nel descriverne l’inconsistenza esistenziale, è stato un bravo Leonid e Luigi Tontoranelli perfetto nel ruolo del parvenu Lopachin.
Non possiamo poi dimenticare l’ottima prova di tutti gli altri attori Sara Zanobbio, Elisa Cecilia Langone, Daniel Dwerryhouse, Valeria Cocco, Corrado Giannetti, Silvia Piovan, Paolo Meloni, Francesco Borchi.