“Il teatro, voi vedete signori, è la bocca spalancata di un grande macchinario che ha fame : una fame che i signori poeti […] hanno il torto di non saper saziare.”
È fame di finzione, improvvisazione, ragionata confusione. Di gioco: il ‘giuoco delle parti’, la sfida degli attori che hanno a che fare con se stessi, con il loro personaggio, con il personaggio del loro personaggio. E con il pubblico. Pirandello sfonda la quarta parete, Ceriani non ha alcuna intenzione di rimettere insieme i pezzi. Sipario frustrato e spettatori sadici al punto giusto.
È fame di una prestazione goldoniana, improvvisata, a soggetto, da parte di un regista.
È fame di copione, battute scritte, movimenti predisposti, da parte della compagnia.
È fame di gelosia e leggerezza, di fischiatine e musica. L’attenzione dello spettatore non è la stessa del 1930, come fa notare il regista (quello vero), ed è questo che lo ha spinto a sostituire il monologo iniziale del regista (quello finto), il dottor Hinkfuss, con un pezzo suonato e cantato dal vivo, che alleggerisce e sorprende senza tradire l’autore. Obiettivo di Pirandello era proprio quello di rivendicare il diritto del drammaturgo di vedere la propria opera rappresentata fedelmente, senza gli arrangiamenti di un direttore di scena con manie di protagonismo.
È la fame di Pirandello di una ribellione al prototipo tedesco di regista negli anni Trenta. A Königsberg, in Germania, la prima assoluta dello spettacolo lo costringe a scappare dalla porta sul retro. È un rivoluzionario, di certo non adatto a finire nelle antologie scolastiche, come si deve aver pensato anche di Beckett e del suo Teatro dell’Assurdo. Ma il metateatro di Pirandello scrive una nuova pagina della drammaturgia, offre al pubblico lo spettacolo dietro lo spettacolo, il corpo nudo del teatro, vibrante di spontaneità e passione, di coinvolgente umanità degli attori, di liberazione da tutto ciò che ricorda allo spettatore di assistere non a una vicenda reale, ma a una rappresentazione fittizia. Sciolti i legami con la nostra realtà, ci si cala in quella che prende vita sul palco, confrontandosi direttamente con i personaggi e prescindendo dagli attori.
È fame di imprevedibilità e rischio che un gruppo in platea si accodi all’attore seduto in sala mentre protesta con il regista (quello finto).
Ricco e genuino il risultato, proteico il numero di attori sul palco e liquoroso il finale, di cui si apprezza a pieno il gusto dopo averlo mandato giù.
Pergola, buon appetito!