Dopo il successo dello scorso anno e la trionfale tournée in tutta Italia (che ha toccato oltre 32.000 presenze), Tutto per bene di Luigi Pirandello, diretto e interpretato da Gabriele Lavia, torna al Teatro Argentina di Roma. A emozionare il pubblico è il dramma, anzi la tragedia di un uomo, Martino Lori, un Gabriele Lavia misuratissimo e disperato, vedovo inconsolabile da oltre 16 anni dell’amatissima e venerata moglie Silvia, che scopre di aver vissuto una vita completamente diversa da quella che ha sempre creduto. Intorno a lui il disprezzo dell’amata figlia Palma (Lucia Lavia, giovane figlia del regista), il potente e irascibile senatore Salvo Manfroni (Gianni De Lellis), da sempre amante della moglie, del genero, lo squattrinato marchese Gualdi…
Tutto per bene rappresenta uno snodo fondamentale della drammaturgia pirandelliana: ha debuttato a teatro nel 1920, ricavato appositamente per Ruggero Ruggeri da una novella scritta nel 1906 per raccontare con lucida profondità una parabola profondamente umana fra vendette e opportunismi, maschere e tradimenti, ma sempre all’insegna dell’umorismo amaro del drammaturgo siciliano. Lavia ha deciso d’impostare la messinscena attraverso un meccanismo quasi cinematografico: il commento musicale extradiegetico (di Giordano Corapi) incombe luttuoso e costante (ma non prepotente) per l’intera durata dello spettacolo. Ad aprire il primo atto l’analessi di grande effetto visivo con il narratore (Lavia stesso) che racconta l’antefatto e il momento cruciale della vicenda, con la morte di Silvia Ascensi, pianta dall’ignaro marito Martino Lori e dal suo amante, il senatore Manfroni. Poi, quando si alza realmente il sipario il balzo temporale è di ben 16 anni in cui sembra che nulla sia cambiato: Martino Lori si reca giorno dopo giorno a ossequiare la moglie defunta al cimitero. Intorno a lui il disprezzo, fra le scene monumentali (molto belle, di Alessandro Camera), con la gigantesca tomba marmorea di Silvia sul lato del proscenio, i salotti bianchi e i divani infiniti che amplificano una distanza umana, sociale ed emotiva e le enormi finestre che creano gli essenziali interni borghesi tremendamente claustrofobici, quasi neri.
I costumi opulenti in stile Anni Venti (di Andrea Viotti che ha privilegiato la ricchezza visiva fra pellicce e abiti di lusso) illuminano le grandi scene e conferiscono un’aria fredda, quasi stucchevole ai personaggi, ridotti spesso a marionette dalla regia che li blocca istantaneamente facendoli camminare indietro fino a farli retrocedere retrocedere sulle loro posizioni.
La regia di Lavia sembra quasi rallentata, soprattutto nel primo atto, ad annunciare la il dramma sotteso, quasi in una sorta di giallo emotivo che aspetta di essere sciolto. Il secondo atto poi, molto lungo, conosce il suo momento di snodo nella scena cruciale (bellissima, complici le luci) dello scambio di Martino con il senatore da parte di Palma andando a scatenare l’inizio della fine, il crollo delle certezze di Martino Lori che si perde nel dolore dei suoi tortuosi sentieri dell’anima dinanzi a una realtà inaspettata e aspra. I dialoghi si trasformeranno in un lungo straziante monologo interiore del protagonista, vittima di un tremendo caso della vita e vittima ignara e impotente del Fato, della crudele accettazione e non tanto della perdita della maschera di fronte alla società. Al di là dello smarrimento qui resta il dolore e il peso di un tradimento lungo tutta una vita che neppure una meschina vendetta su Manfroni potrebbe riscattare. Su tutto il cast, bene assortito e in parte Gabriele Lavia è molto intenso nel creare la maschera di questo disgraziato che si trascina in scena, disperato e goffo, dimesso e triste, sempre fuori posto, sempre in imbarazzo, sempre dimesso, fra sussurri e grida di dolore anche nel finale in cui tragicamente afferma Tutto per bene allo scioglimento di una realtà totalmente vissuta sulla menzogna. Uno spettacolo magnifico da un punto di vista estetico, umanamente emozionante. In scena fino al 27 gennaio.