Per avvicinarsi alle opere di Beckett occorre superare la sintassi interpretativa corrente con una più aperta disponibilità a quello che inglesi chiamano feeling e che noi potremmo definire sentimento irrazionale. E’ necessario integrare la parola con le pause, la riga con gli spazi vuoti. Quello di Beckett è stato definito il teatro dell’assurdo, in realtà si tratta di un nonsense metafisico che si disvela nel non detto, che è nascosto nel suono, nelle pieghe del discorso e nel linguaggio del corpo. Sulle scene del Teatro Carcano Glauco Mauri e Roberto Sturno ci presentano quattro atti unici che sono preceduti da un “Prologo” in cui è Beckett stesso che parla della sua concezione del mondo e della vita attraverso le voci dei due grandi attori.
Il primo è “Respiro”. La scena è cosparsa di rifiuti che rappresentano quel che rimane della vita. La brevità della rappresentazione rimanda all’attimo che passa tra il primo vagito e il lamento della morte. Un attimo che riassume tutta una vita.
In “Improvviso dell’Ohio” due personaggi siedono ad un tavolo. Il primo legge un libro al secondo al fine di alleviargli la sofferenza per l’assenza o la perdita della moglie. I due personaggi al tavolo sono uno lo specchio dell’altro, si scopre infatti che il lettore e l’ascoltatore sono in realtà la stessa persona. E’ lui Beckett che soffre la morte (immaginata) della moglie Suzanne.
“Atto senza parole” è una celebre pantomima, in cui il bravissimo Sturno, in un grottesco silenzio, dà vita ad un’azione drammatica incentrata sul corpo, sul movimento e l’espressione del viso che rende inutile la parola. Il protagonista tenta in vari modi di raggiungere una caraffa d’acqua, calata dall’alto tramite una fune, escogitando varie strategie che si riveleranno sistematicamente inutili e infruttuose. La pièce dà il senso dell’arbitrarietà e l’insensatezza delle regole che dominano l’esistenza e sottolinea la crudeltà della vita e il vitale slancio che ognuno di noi porta dentro anche nei momenti di estrema difficoltà. “Atto senza parole” porta con sé una dose di autentica drammaticità assieme ad una dose di ironia e leggerezza.
Ne «L’ultimo nastro» Glauco Mauri nei panni del vecchio Krapp ascolta una bobina registrata 1961 al teatro Manzoni in occasione della prima rappresentazione della pièce. Si crea così sulla scena un cortocircuito fra realtà e finzione. La voce registrata fa riaffiorare memorie di avvenimenti e di sentimenti: il ricordo di quando Krapp era un giovane ambizioso artista e di quando aveva vissuto una bella storia di amore. Sono ricordi ai quali il vecchio non risparmia commenti amari e sprezzanti. La solitudine l’ha indurito e, nel buio della sua tana distrugge tutte le bobine nelle quali passano vitali e rumorose tutte le stagioni della sua vita. Questa parabola esistenziale è recitata da Glauco Mauri con intensa, sofferta, vissuta partecipazione.