C’è stato un tempo in cui l’uomo viveva per sopravvivere. In particolare, si trovava nella situazione di essere in bilico tra il procurarsi il cibo e l’alternativa, meno allettante, di essere mangiato da bestie feroci. Grazie alle capacità di relazionarsi con l’ambiente esterno – modificandolo, costruendo ipermercati e facendo estinguere le bestie feroci – l’uomo ha sempre cerca di “migliorare” la propria condizione, in particolare quella alimentare.
“Digerseltz” mette in evidenza proprio il rapporto con il cibo e il cibarsi – non solo in quanto sostanza necessaria, ma cibo in quanto rito, consuetudine, atto involontario, coercitivo. «Noi siamo vuoti da riempire» recita Elvira Frosiri, «noi siamo quello che mangiamo» risponderebbe il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach. Ciò che il nostro organismo ingerisce attraverso la bocca lo utilizza per costruire se stesso – e nel caso specifico della donna, la possibilità di nutrire l’Altro. Donna che ha un legame più simbolico con il cibo: grassa e fertile, di focolare domestico; donna magra e modello rappresentativo della moda, economico e di marketing; etc. Anche se il divario culturale/sociale tra uomo è donna si assottiglia (omologandosi forse in peggio) non si può modificare uno statuto genetico. Del cibo per il cibo, nel caso del maschile. Di materia che non diventa altra materia biologica, ma materia d’essere, coscienziosa, nel caso del femminile: madre per eccellenza, colei che nutre, colei che sacrifica il corpo per un altro corpo.
Come ben si evidenzia nello spettacolo, ci sono una serie di problematiche legate al cibo – dalla fame nel mondo nel mondo all’obesità, tutte ben «nascoste sotto il tavolo» dei commensali. Sembra quasi che si profetizzino le ultime notizie sulle percentuale di carne non bovina presente in alcune confezioni alimentari. Non sappiamo più cosa mangiamo, ma mangiamo comunque, sempre di più. Lo spettacolo coglie perfettamente il senso di una malessere sociale e personale, di una società che sovrappone il consumismo al proprio consumo.
Quindi se siamo vuoti da riempire, la performance di Frosiri diventa uno spazio per costruisce una serie di interessanti corti circuiti che rendono lo spettacolo un contenitore di riflessioni da “degustare”. Infatti, come dicevo in precedenza, se parliamo di corpo da sacrificare – e nello spettacolo è chiaro il riferimento alla concezione cristiana del sacrificio, dove il corpo è il luogo dell’ostensione e del sacrificio per eccellenza – non possiamo non considerare che c’è una perversione piacevole di base al nutrirsi dell’altro. Non è il semplice voyeurismo che spinge uno spettatore in teatro, ma è la fame, la fame dell’attore (e viceversa). Il sacrificio della carne è alla base di molte antiche religioni quanto è fondamentale per il rito teatrale dionisiaco. Si può rilevare così lo stretto rapporto tra sacro e violenza – sacro e violenza che soddisfano i bisogni, le angosce e le paure. René Gerard individua nel capro espiatorio (e il termine “tragedia” deriva proprio dalla parola τραγος, capro) un’istituzione culturale sapiente, indispensabile per evitare la violenza di tutti contro tutti: in cui la carne e il sangue sono il pane e il vino. Dunque, come scrive Elvira Frosini, «l’artista è come il maiale: non si butta niente» e quando si “cucina egregiamente” come in questo caso, noi spettatori non possiamo che ritenerci soddisfatti e gustare l’antico e sempre più raro pasto.
drammaturgia e regia: Elvira Forsini
collaborazione artistica: Daniele Timpano
progetto luci: Dario Aggioli
assistente alla regia: Alessio Pala
materiali di scena e progetto grafico: Antonello Santarelli
foto: Claudia Papini, Antonello Santarelli, Michele Tomaiuoli
produzione: Kataklisma
in collaborazione con: Officine CAOS/Stalker Teatro, Arti Vive Festival, Consorzio Ubusettete
Sala Teatro Ichos è in via Principe di Sannicandro 32/A – San Giovanni a Teduccio (Napoli) – http://www.ichoszoeteatro.it