di RICHARD WAGNER
Terza giornata in un prologo e tre atti
Libretto di RICHARD WAGNER
(Proprietà Fondazione Teatro alla Scala)
Prima rappresentazione: Bayreuth, Festspielhaus, 17 agosto 1876
Prima rappresentazione al Teatro alla Scala: 26 dicembre 1896 (in italiano)
Nuova produzione in coproduzione con Staatsoper Unter den Linden, Berlino in collaborazione con Toneelhuis, Anversa
Direttore DANIEL BARENBOIM (30 maggio, 3, 7 giugno)
KARL-HEINZ STEFFENS (18, 22, 26 maggio)
Regia e scene GUY CASSIERS
Collaboratore del regista LUC DE WIT
Scene e luci ENRICO BAGNOLI
Costumi Tim van Steenbergen
Video ARJEN KLERKXe KURT D’HAESELEER
Coreografia SIDI LARBI CHERKAOUI
ORCHESTRA DEL TEATRO ALLA SCALA
Personaggi e interpreti
Siegfried Lance Ryan
Gunther Gerd Grochowski
Alberich Johannes Martin Kränzle
Hagen Mikhail Petrenko
Brünnhilde Iréne Theorin
Gutrune Marina Poplavskaya / Anna Samuil
Waltraute Waltraud Meier
Die erste Norn Margarita Nekrasova
Die zweite Norn Waltraud Meier
Die dritte Norn Marina Poplavskaya / Anna Samuil
Woglinde Aga Mikolaj
Wellgunde Maria Gortsevskaya
Flosshilde Anna Lapkovskaja
Date:
sabato 18 maggio 2013 ore 18 ~ prima rappresentazione
mercoledì 22 maggio 2013 ore 18 ~ turno A
domenica 26 maggio 2013 ore 15 ~ turno C
giovedì 30 maggio 2013 ore 18 ~ turno B
lunedì 3 giugno 2013 ore 18 ~ turno D
venerdì 7 giugno 2013 ore 18 ~ turno E
Prezzi: da 210 a 13 euro
Per informazioni: tel. 02 72 00 37 44
L’opera in breve
Emilio Sala
Giunto all’ultima opera del suo colossale
ciclo, Wagner è preso da una doppia urgenza
retrospettiva – strutturale e drammaturgica.
La Götterdämmerung incomincia
infatti con un Prologo cui fanno
seguito tre atti ovvero una costruzione
che rispecchia la struttura dell’intera tetralogia,
composta appunto di un antefatto
e di tre giornate. Per quanto riguarda il
contenuto drammatico, nel Prologo assistiamo
a un ennesimo riassunto – questa
volta definitivo – delle “puntate” precedenti.
A raccontarcelo sono le tre Norne,
le filatrici nordiche del destino che emergono
dalle tenebre notturne.A introdurle
è la musica, anch’essa “primordiale”, del
fluire e del divenire, che ci riporta alle acque
del Reno da cui tutto era incominciato.
Però – e la variante è naturalmente
cruciale – il Leitmotiv del flusso incessante
è anticipato e intervallato da un perentorio
accordo di Mi bemolle minore, intonato
dai soli fiati (oboi, clarinetti e corni),
che suona come un campanello d’allarme:
tutto sembra – ma non è più – come
prima. Dunque le Norne ci svelano (solo
ora) quale fu il trauma originario, quello
che precede il furto dell’oro da parte di
Alberich: da quando Wotan strappò un
ramo del “frassino del mondo” per farne
l’asta della sua lancia su cui incidere i
patti, l’equilibrio naturale si è rotto. Si è
passati, in un certo senso, dalla preistoria
alla storia, dalla natura alla cultura. Ma
Siegfried ha spezzato la lancia diWotan e
quest’ultimo ha fatto tagliare l’albero sacro,
ormai secco, che è ora accatastato intorno
al Walhall. Il destino degli dei è segnato:
le fiamme distruggeranno la reggia
dove risiedono. Eppure c’è un trauma ancora
peggiore: il furto dell’oro e la brama
di potere che ne consegue. Da qui irrompe
un mutamento storico – la modernità –
che ha sconvolto tutti i saperi tradizionali.
Le Norne non sanno più leggere il futuro:
il filo del destino si spezza per sempre
mentre risuona – terrificante – il motivo
della maledizione dell’anello.
L’effetto di accelerazione del tempo storico
(ancora una volta la modernità) –
quello di cui parla Reinhart Koselleck in
un famoso saggio – emerge anche dal fatto
che il canto delle tre Norne è ogni volta
più breve: le profetesse inseguono un
processo che non riescono più a capire.
Dopo questa anticipazione catastrofica,
lo spuntare del sole e il passaggio all’entusiastica
scena dell’amore tra Siegfried e
Brünnhilde risulta minato alla radice.
L’opposizione tra le due parti del Prologo
non potrebbe essere più netta. E il glorioso
corno dell’eroe, che accompagna il
viaggio di Siegfried sul Reno fino all’inizio
del primo atto, viene offuscato alla fine
dalle cupe armonie di Gunther,Gutrune
e Hagen. Sì, perché ben presto assistiamo
alla manipolazione dell’eroe da parte
del terribile e spettrale figlio del Nibelungo:
Hagen. Siegfried verrà irretito dai
raggiri di quest’ultimo e sarà egli stesso
che conquisterà – con una violenza che
rasenta lo stupro – Brünnhilde a
Gunther.Abbiamo già detto, presentando
la penultima opera del ciclo, quanto siano
assurde le interpretazioni (oggi fortunatamente
in disuso) che prendono troppo
sul serio l’eroismo dell’«uomo dell’avvenire
». La colluttazione brutale durante la
quale Siegfried (che non a caso per effetto
dell’elmo magico assume le sembianze
di Gunther) strappa l’anello a Brünnhilde
è il culmine della sua degradazione.
Un’altra scena-chiave, anche se completamente
statica e priva di ogni funzione
narrativa, è quella che apre il secondo atto:
Hagen dorme con gli occhi aperti alla
presenza (del fantasma?) di suo padre
Alberich. Siamo chiaramente dentro il
suo incubo, in soggettiva (per usare un
termine preso dal cinema). Ancora una
volta non possiamo non sottolineare l’importanza
della dimensione psicagogica e
pre-psicoanalitica della drammaturgia
musicale wagneriana. Se, per dirla con
Jung e Hillman, nel mondo moderno gli
dei sono diventati malattie, nel Ring il
piano mitico-allegorico è un travestimento
di quello psichico. L’estetica della fantasmagoria,
che tanto Adorno rimproverava
a Wagner, va ricondotta a questo
contesto. Quando lo scandalo esplode coram
populo, melodrammaticamente, dopo
che Brünnhilde vede al dito di Siegfried
l’anello strappatole dal falso
Gunther, la “sceneggiata” non è poi così
lontana – in effetti – dall’estetica dell’eccesso
e dell’iperbole che Peter Brooks ha
posto alla base della sua “immaginazione
melodrammatica”.
Siamo così arrivati al problema del finale.
Per Adorno, «lo sfacelo cosmico alla fine
del Ring è nello stesso tempo uno happy
end». Dopo che Brünnhilde si è lanciata a
cavallo nel rogo dell’eroe morto per mano
di Hagen, e dopo che quest’ultimo è
annegato nelle acque del Reno nel vano
tentativo di recuperare l’anello riconquistato
dalle ondine, vari motivi si susseguono:
quello delle Figlie del Reno rasserenate,
quello del Walhall in fiamme, ma
soprattutto quello della redenzione attraverso
l’amore con cui finisce l’opera. Sarà
anche un’illusoria fantasmagoria (l’utopia
di una rigenerazione impossibile), ma va
inteso come un finale “aperto”, non come
uno happy ending. Per questo, dopo più
di trent’anni, trovo ancora un gesto teatrale
ed ermeneutico straordinario, quello
di Patrice Chéreau che nel suo celebre
Ring del centenario (diretto da Pierre
Boulez), sulle note conclusive della partitura,
fece voltare la folla presente in scena
verso il pubblico: il senso di turbamento
ma anche di fraternità, che quello
sguardo interrogativo – sospeso tra la catastrofe
del passato e le angosce del futuro
– ancora oggi ci comunica, è un modo
perfetto di suggellare le ambivalenze e le
ambiguità che il finale della tetralogia –
volenti o nolenti – ci lascia in eredità.