(sabato 20 e domenica 21 aprile 2013)
Dentro la trappola non trova pace se non alla fine
La trappola è una novella scritta da Pirandello nel 1912, è un monologo intriso di pessimismo che segue le elucubrazioni mentali di un nichilista misogino, intrappolato dalla sua esistenza, circuito e usato dalle persone e dalle cose. Tutto è fittizio ed aleatorio, la condizione individuale è una costruzione artificiale,una realtà che noi stessi creiamo e sarebbe diversa se fosse spostata in altro spazio e in altro tempo, ma sarebbe comunque sempre una trappola, perché ogni cosa che prende forma si arresta e si allontana dalla vita che è flusso continuo.
Quindi tutto è precario, le insicurezze e le paure diventano ossessioni e ti stringono dentro una trappola, dalla quale vorresti fuggire pur sapendo di non poterlo fare, perché la vita stessa è una trappola, che puoi distruggere solo con la morte, ma anche quella è una fregatura, perché da morto non potrai assaporare il gusto di essere uscito dalla trappola né il piacere di essere libero.
Un testo amaro e disperato che nella rilettura e nell’interpretazione di Gabriele Lavia diventa ancor più duro ed ossessivo. Lavia, che entra in palcoscenico in vestaglia sbraitando “No, no, non devo rassegnarmi” e rivolto al pubblico esclama “Siete tutti morti”, arricchisce il testo di riferimenti letterari, figure retoriche, rimandi filosofici saltando dai filosofi greci a Schopenhauer e Nietzsche, smonta e analizza ogni frase caricandola di un pessimismo lucido e spietato, cura anche la regia dello spettacolo che apre con “La donna è mobile” da Rigoletto di Verdi, cantata con tempi un po’ particolari, e chiude con due colpi di pistola, e, come se tutto questo non bastasse a tessere le sue lodi, Gabriele Lavia è anche l’interprete e vi lascio immaginare cosa ne è venuto fuori: un coinvolgimento totale con questo personaggio che interloquisce anche con la platea.
Lo spettatore, accolto a sipario aperto, ha subito la percezione che quell’ambiente austero, labirintico, zeppo di mobili e di libri, sia l’habitat di una persona complessa e nevrotica. E non si sbaglia, perché Fabrizio è un uomo di mezza età, complesso e nevrotico, che passa il proprio tempo a dimostrare il non sense dell’esistenza, mentre il vecchio padre infermo piange nell’altra stanza. La musica d’apertura annuncia l’odio che lui sente per le donne, perché ne è attratto ma teme di essere usato, come in realtà gli accade.
Lavia tratteggia un personaggio sopra le righe, irrequieto, farneticante, logorroico che parla in modo frenetico con se stesso e con personaggi immaginari, che gira tra i mobili gesticolando e borbottando, al buio e alla flebile luce di una candela che fa apparire la realtà tremolante, che apre gli armadi per mostrare le vuote spoglie appese con il grinzo e le pieghe dei ginocchi stanchi e dei gomiti aguzzi, che non si ferma un istante, seppur intrappolato, se non davanti allo specchio che riflette l’immagine ma non ne serba traccia, che suona il pianoforte cantando con lo stile di Cocciante e di Jannacci, canta arie dal Don Giovanni di Mozart inneggianti alla libertà (Lavia è regista anche di opere liriche), poi si adagia sul divano inerme per avere la sensazione di non esserci più. Disquisisce sulle parole, sulla certezza e incertezza della vita, sulla metafisica, sull’invecchiamento del corpo che intrappola lo spirito sempre vispo e libero, critica le opere di misericordia che nascondono sempre un secondo fine e quindi una trappola e ogni tanto corre dietro per dire al padre di non piangere.
Ragionare intorno a certi argomenti porta alla follia e Lavia sembra proprio un pazzo.
La trappola gli sta stretta, ma lui è impotente, un barlume di vita sembra arrivare quando conosce una donna, ma succede quel che lui non avrebbe mai voluto, lei lo usa e lo abbandona, acuendo il suo odio verso le donne che Lavia ribadisce pronunciando a intervalli la frase “Odio tutte le donne” con voce diversa come se venisse da uno spirito invisibile. Magnifica la scena dell’amplesso con musica straniante, tipica degli spettacoli di Lavia, e con luci intermittenti che simulano movimenti compulsivi dei corpi ma che in realtà non lasciano vedere nulla se non macchie nere in movimento.
La donna è interpretata alla grande da un’elegantissima, ossequiosa, mielosa e distaccata Giovanna Guida, che recita in modo stentoreo e controllato, con voce sensuale e atteggiamenti accattivanti, Riccardo Monitillo è il padre muto e accartocciato su se stesso, portato in palcoscenico sulla carrozzella da questa servizievole donna canaglia.
Uno spettacolo curatissimo in ogni dettaglio, la scenografia imponente e sovrabbondante per un monologo, o quasi, simboleggia lo squilibrio tra il relativismo della persona e l’immortalità delle cose, attenta ai significati del gesto e della parola la regia (del resto Lavia è amico di Shakespeare), bravissimi gli attori perfettamente calati nei loro ruoli.
Lo spettacolo è una produzione Teatro di Roma con scene di Alessandro Camera, costumi di Andrea Viotti, musiche di Giordano Corapi, luci di Giovanni Santolamazza, tutti illuminati dal genio di Gabriele Lavia, regista e interprete della pièce.
L’ho visto due volte ed essendo in prima fila ho partecipato al dialogo di Lavia col pubblico.