Il Teatro dell’Opera di Roma celebra il bicentenario della nascita di Richard Wagner (che coincide con il bicentenario del nostro Giuseppe Verdi) nel modo meno scontato e prevedibile possibile, portando in scena il Rienzi, l’ultimo dei tribuni, grande opera tragica in cinque atti su libretto di Wagner dal romanzo di Edward Bulwer Lytton, proposta in lingua originale con sottotitoli in italiano.
Nelle intenzioni di Hugo De Ana (che ha curato in toto la regia, le scene e i costumi) l’obiettivo di trasformare il Rienzi nell’opera romana per eccellenza perché d’altra parte la Città Eterna “in tante fasi della sua storia e attraverso i secoli, ha vissuto delle agitazioni rivoluzionarie, disordini e sommosse, sotto diversi governanti: tribuni, imperatori o dittatori”.
Raro, rarissimo vedere il Rienzi in scena (composto fra il 1838 e il 1840, opera giovanile di Wagner che musicalmente precorre alla maturità artistica), che resta un’opera intimamente legata a Roma e alla sua storia raccontando la vicenda e l’utopia tragica di Cola di Rienzo, tribuno del popolo che nella prima metà del Trecento tentò di ripristinare la Repubblica sul modello dell’Antica Roma, osteggiando i le fazioni nobili della città (Colonna e Orsini). Fu deposto tragicamente dallo stesso popolo che fino a poco tempo prima l’aveva esaltato in seguito a una congiura ordita dai nobili romani. Insomma il materiale per un allestimento importante, ma tradizionale, c’era tutto (il Rienzi risente dei modelli francesi del grand-opéra di Meyerbeer) e Hugo De Ana ha conseguentemente realizzato una messa in scena grandiosa, magniloquente e molto cupa, proprio come l’infelice parabola politica di Rienzi.
Nel nuovo allestimento di questo appassionante dramma storico, Hugo De Ana sceglie l’atemporalità, senza dare all’azione una precisa collocazione storica (anche nei costumi, una sorta di melting pot medievale, militaresco e moderno), ma indicandone in tal modo proprio la simbologia assoluta. I fasti della Roma imperiale fanno capolino un po’ ovunque però, dalla Colonna di Traiano, alle statue equestri ai palazzi del potere e nelle belle, importanti scene che scivolano prepotentemente verso il pubblico, con tanto di sanpietrini in terra. Non meno importanti, le numerose proiezioni (fin dalla lunga Ouverture) funzionali anche per colmare i numerosi tagli drammaturgici (per ovviare alla lunghezza della partitura), fin dalla suggestiva pioggia di lettere a formare la tavola bronzea della Lex de imperio Vespasiani, la Sanctio ripresa dal tribuno che torna spesso in scena, ora trionfante, ora selvaggiamente messa da parte nel finale, proprio a rispecchiare la parabola di Rienzi.
Potere, politica, utopia, tradimenti… c’è davvero di tutto nell’opera ben sostenuta da un bel cast, dal dramma personale di Adriano Colonna (l’ottima Chariklia Mavropoulou, che si è alternata ad Angela Denoke), dalle mille sfaccettature, diviso fra la lealtà alla famiglia e l’amore per Irene (Carola Glaser che si è alternata a Manuela Uhl ), sorella di Rienzi, c’è tutta l’autorevolezza e la grande comunicatività del tribuno, Carsten Süss (Andreas Schager, per il primo cast) dalla possente vocalità e che la regia di De Ana pone sempre in qualche modo al di sopra del popolo, ora nell’esaltazione, ora nella feroce lapidazione finale, nelle numerose (mai statiche) scene di massa, fulcro di una regia tradizionale. Lode a Stefan Soltesz sul podio (che aveva diretto con successo anche l’Elektra di Strauss nel 2010) alla prese con una partitura lunga (quasi più di tre ore) ricca di tensione in continuo crescendo, ma che già precorre al Wagner maturo e rivoluzionario, ottimi Orchestra e Coro (diretto da Roberto Gabbiani). E tutto il senso sta in una breve, esplicativa citazione che chiude lo spettacolo “La storia è una morte lenta e seducente che si vanta delle nostre ultime ore di vita”.