(Recita del 19 maggio 2013)
Duecento cinquanta anni fa, il 14 maggio 1763, il Teatro Comunale di Bologna fu inaugurato con Il trionfo di Clelia, dramma per musica in tre atti su libretto di Pietro Metastasio, musica di Christoph Willibald Gluck; con la stessa opera si è festeggiato quest’anno il 250°anniversario dell’apertura della sala del Teatro Comunale. L’opera, abbastanza lunga, noiosetta sul versante cantato, più ricamata nelle parti strumentali, è un susseguirsi di arie solistiche (18), lunghi recitativi secchi, alcuni recitativi accompagnati, un duetto e un breve coretto cantato da tutti i solisti.
Si basa sul contrasto tra libertà e potere assoluto che si concretizza nell’eroismo di Clelia, nobile donzella romana, ostaggio del campo toscano comandato da Porsenna, arrivato nei pressi di Roma al fine di ristabilir sul trono della città Tito Tarquinio, ultimo figlio di Tarquinio il Superbo, che n’era stato scacciato. La giovane, insidiata da Tarquinio ma destinata sposa all’eroico Orazio (Coclite), ambasciatore di Roma, fugge dal campo toscano e, attraversando a nuoto il Tevere, giunge a Roma, suscitando l’ammirazione di Porsenna per quel gesto eroico. C’è un’altra coppia formata da Larissa, figlia di Porsenna promessa a Tarquinio, e da Mannio, principe dei Veienti, di cui Larissa è innamorata.
L’allestimento scenico di Bologna con regia e scene di Nigel Lowery e luci di George Tellos riprende quello di Atene dell’anno scorso, più che minimalista è stilizzatissimo, piatto e scialbo, non definisce tempi, luoghi e ambienti, un po’ di rilievo vien dato all’incendio del ponte Sublicio e alla fuga a nuoto di Clelia in compagnia di un cavallino usando una botola. L’azione si svolge sia davanti ad un arco da teatrino parrocchiale coperto da un telo bianco sul quale vengono proiettati la sinopsi, un lungo discorso politico contro gli oppressori, un missile che esplode e si disintegra in tante bamboline (perché?), una scena di guerra con aerei e carrarmati, sia dietro, quando il telo si alza, dove compare una parete in legno chiaro che ogni tanto si apre lateralmente e lascia intravedere una fabbrica con ciminiera in miniatura. La scena più originale e azzeccata è la costruzione a vista del ponte con archi sottostanti per lasciar scorrere l’acqua del fiume, fatta con scatoloni sovrapposti; sul ponte nero e fondale rosso si proietta una battaglia in miniatura poi scoppia l’incendio, il ponte crolla e travolge Orazio che si getta nel fiume.
Non ho capito il significato della bambolina in mano a Larissa, del personaggio ignoto che ogni tanto sbuca da una botola, perché Clelia in redingote rossa, calze nere e scarpe col tacco, arriva con la valigia in apertura d’opera, perché Porsenna aziona il ventilatore e Orazio avanza trascinando un palo come fa Cristo con la croce, perché si gioca con un mappamondo e si bruciano carte, perché sono i cantanti ad aprire e chiudere (troppe volte) il sipario del teatrino e altre cose discutibili proposte da questa regia incomprensibile.
I costumi di Monica Benini sono un miscuglio di stili, Larissa ad esempio ha un abito alla charleston, quindi più che per coerenza è per effetto visivo che risaltano gli originali mantelli a più colori dei personaggi maschili o la giacca a righe orizzontali nere e rosse di Orazio.
Sul versante vocale alcuni ruoli sono en travesti.
Maria Grazia Schiavo (Clelia) con voce sopranile di bel timbro, agile e ben proiettata, si trova a suo agio nel canto di coloratura (Tempeste il mar minaccia), è una brava virtuosa con acuti lanciati e gravi deboli, sa dare incisività all’accento nonostante l’incomprensibilità delle parole, si destreggia bene in tutti i registri nell’aria di furia con grandi sbalzi e slanci acuti “Mille dubbi mi destano in petto” eseguita di forza.
Il mezzosoprano leggero greco Irini Karaianni (Tarquinio) ha voce piccolissima, i suoni sono belli ma corti e appena accennati, sa cantare (Sì, tacerò se vuoi), ma non ha né gravi, né estensione, né pronuncia chiara.
Il soprano turco lirico leggero Burcu Uyar (Larissa) produce suoni medi chiusi, fa uso della messa di voce e dà maggior sfogo agli acuti (Ah, celar la bella face) ed è proprio nella tessitura acuta che la voce risulta più bella (Ah, ritorna, età dell’oro); la dizione è incomprensibile.
La greca Mary-Ellen Nesi (Orazio) è un mezzosoprano dal bel timbro scuro e peso vocale modesto (Resta o cara), la voce è impastata e intubata nei registri medio e grave, comunque è ben lanciata nell’acuto e agile nei vocalizzi, che sono incomprensibili, quando il canto si fa più morbido (Saper ti basti, o cara), modula con proprietà sopra un tessuto orchestrale sospeso e lungo, sa cantare ma non pronunciare.
Il tenore Vassilis Kavayas Porsenna canta bene e si capisce (A sì, bell’opra), ha voce chiara e pulita, di poco spessore e gravi vuoti (Sai che piegar si vede)… forse glieli porta via il ventilatore (Boh !!!!!!)…, il suono risulta un po’ piatto e si stringe quando sale, la rigidità della voce non è adatta al virtuosismo delle sue arie, piene di fioriture.
Il sopranista giapponese Daichi Fujiki (Mannio) usa bene il fil di voce che ha, producendo bei filati e leggerezza del suono (Vorrei che almen per giuoco).
I recitativi accompagnati dal cembalo erano uno zampillare di suoni incomprensibili fino a generare noia e in linea di massima l’intelligibilità fonica è stata carente anche nelle arie, perciò la vicenda è rimasta piuttosto oscura.
La musica con armonie squisite e trasparenti è decisamente più accattivante. L’Ouverture si bilancia con ritmo danzante tra la densità dei fiati e la leggerezza degli archi che dominano anche sul tutto orchestrale, ogni aria ha un’introduzione, l’opera termina con musica trionfale e canto d’insieme. La brava Orchestra del Teatro Comunale di Bologna era diretta da Giuseppe Sigismondi De Risio.
Per me certe opere vanno fatte in costume d’epoca e con veri virtuosi del canto, altrimenti dov’è la <maraviglia>?