Un flusso di allitterazioni, assonanze, rime, onomatopee, metafore, similitudini, analogie, ossimori, metonimie, sinestesie, chiasmi, litoti, antitesi, anafore e altre figure retoriche si spande dal palcoscenico dove un distinto e irriducibile artista, tra innumerevoli travestimenti, con grazia leggiadra snocciola versi di Giovanni Pascoli, sullo sfondo di tele dipinte a motivi floreali in stile Belle Epoque.
La soavità dei versi evoca suggestioni sonore e visive. La melodia del linguaggio poetico si esalta nelle frasi essenziali, cantilene e filastrocche, nel lessico ricco di termini dotti e parole comuni. Gli effetti musicali delle onomatopee suggeriscono allusioni e magie in cui la natura si percepisce attraverso i sensi. Gli echi lirici riflettono lo stato d’animo decadente di chi gode delle piccole cose rassicuranti, dei versi delle cince, dei pettirossi e degli assiuoli che volano tra viburni e tamerici.
Le luci del palcoscenico e i costumi ideati da Santuzza Calì, di taglio maschile nei toni monocromi del bianco e del nero, quelli femminili variopinti, sfarzosi quelli zoomorfi, trasformano gli interpreti in “fanciullini” ondeggianti sui versi di Mirycae e dei Poemetti, verso le atmosfere bucoliche della campagna e dei lavori dei campi, gli animali, i fiori e le piante, fuggendo dalla natura minacciosa delle avverse condizioni atmosferiche verso il nido familiare rassicurante, rifugiandosi nella dolcezza dell’infanzia lontano dall’illusoria ed effimera felicità. L’Italia preindustriale e le figure contadine del ‘900 prendono voce e immagine tra le stilizzate scenografie di Emanuele Luzzati, portati in scena tra rapidissimi cambi di costumi e trucco, da Paolo Poli attorniato dai quattro boys Fabrizio Casagrande, Daniele Corsetti, Alberto Gamberini e Giovanni Siniscalco, che intrecciano le stravaganti coreografie ideate da Claudia Lawrence.
La scrittura e la metrica pascoliane, che al liceo sembravano icone intangibili adatte a risuonare solo nelle aule scolastiche, recitate così, senza soluzione di continuità, evocano un’atmosfera, una magia, un mondo, una suggestione.
Con ironia irriverente e verve istrionica l’attore fiorentino si mette in gioco e si diverte misurandosi in un impegnativo esercizio linguistico di cui cura anche la regia, rimembrando un poeta che ha caratterizzato il Novecento italiano e un’Italia rurale che è quasi sparita: buoni sentimenti che trascolorano in infelicità segrete nelle poesie impressionistiche, un excursus nel mondo sociale e politico dell’epoca nelle liriche georgiche, tramutando la poetica e la dolente umanità del poeta in scrittura teatrale.
L’artista canta, balla, recita, declama e si traveste. Lieve, lezioso, trasgressivo e canzonatorio ripercorre un significativo capitolo della letteratura italiana dando voce agli emigranti, ai soldati, ai perseguitati politici, ai rancheros messicani, inframmezzando con innata eleganza e doviziosa loquela priva di retorica demagogica i versi di Pascoli con le canzoni scelte da Jacqueline Perrotin, come la propagandistica “Tripoli bel suol d’amore”, il canto anarchico “Addio a Lugano” o la datata “Vieni pesciolino mio diletto vieni”.
Teatro Ghione
Via delle Fornaci, 37 – Roma
fino all’8 dicembre 2013