Un avvio in grande stile, per presenza di pubblico e raffinatezza del testo proposto, quello della stagione alla Pergola che sicuramente avrebbe riscosso l’approvazione del suo leggendario direttore, Alfonso Spadoni che, stroncato da un terribile male, ci ha lasciato nel maggio del 1993.
È del direttivo del teatro e della famiglia Spadoni la decisione di rendere un tributo all’indimenticabile Maestro dedicandogli l’intera programmazione 2013-2014.
Ieri sera il sipario si è alzato per la rappresentazione della pièce, “I Pilastri della società”, coprodotta dalla Pergola, dal Teatro di Roma e dallo Stabile di Torino.
Il dramma dello scrittore ottocentesco norvegese, Henrik Ibsen, è imperniato attorno alla figura del console Karsten Bernick, magistralmente interpretata da Gabriele Lavia che firma anche la regia. Il diplomatico, fin dal suo ingresso in scena, ostenta con fierezza l’assoluta trasparenza della sua dimensione più intima e familiare che assimila ad una “casa di vetro” la cui limpidezza vorrebbe offrire allo sguardo e all’ammirazione di tutti.
Ad aiutare il console nella costruzione di un paradigma intriso di sconvolgente perbenismo e di un’eccessiva moralità, da cui i concittadini dovrebbero attingere le autentiche condotte di vita, è il professor Rørlund che vede un abilissimo Andrea Macaluso nel ruolo di censore di costumi ed educatore in un’associazione caritatevole che ruota intorno alle donne di casa Bernick e alle più illustri dame della città.
Suscita ilarità il contrasto fra i personaggi femminili che, sotto la guida del moderno Catone, deplorano le temutissime novità, tra cui l’imminente arrivo della ferrovia, e l’ansia di benessere, ricchezza ed innovazione che domina Karsten-Lavia.
In realtà, infatti, l’unico imperativo cui Bernick obbedisce è il conseguimento dell’utile e del profitto personale in un’esistenza percorsa da profonda falsità.
Karsten, infatti, non è certo quell’ individuo integerrimo e senza macchia che desidererebbe apparire e la fragilità del castello di menzogne, su cui ha fondato la propria vita, ben presto emergerà.
A portare alla luce l’indicibile segreto che il console custodisce gelosamente, ricordo di un passato che vorrebbe dimenticare, è l’irriverente Lona, sua cognata, che, inattesa, arriva dall’America con il fratellastro Johan.
La donna che, già dal taglio di capelli e dall’abbigliamento trasandato, mascolino, si differenzia dall’immagine che il resto della famiglia vuol
fornire di sé, è interpretata da un’impeccabile Federica Di Martino che rende perfettamente l’autenticità del personaggio che incarna, lo spirito di irriverenza e libertà che lo anima.
Quindici anni prima, così si apprende dal colloquio con Lona, il console aveva iniziato una breve e inconfessabile relazione sentimentale con una
giovane attrice, già sposata, che rapidamente e bruscamente aveva interrotto per unirsi in matrimonio con la ricca Betty Tønnesen.
La donna era morta poco dopo l’abbandono di Karsten che aveva evitato lo scandalo con la complicità del futuro cognato, Johan, disposto ad assumersi la responsabilità dell’accaduto e a cancellare ogni traccia dell’amara verità fuggendo in America.
Il vero Bernick appare, però, nelle scene finali grazie al contributo di Lona, metafora della verità che squarcia le tenebre della menzogna, quale uomo vile ed ipocrita che ha sacrificato all’altare del denaro anche l’unico e autentico sentimento che poteva salvarlo: il giovanile amore per Lona, troppo indigente per divenire sua sposa e risanare il dissesto economico dell’azienda di famiglia.
Paradigmatica, retorica ed amara la domanda della cognata rivolta al console: “Allora è per il bene della società che hai vissuto nella menzogna?”. La donna, tornata dal Nuovo Mondo, si rivela, dunque, il personaggio-chiave, alla cui presenza l’universo di Bernick si sgretola e crolla rovinosamente perché fondato “sulla sabbia della menzogna” e non su quelli che dovrebbero essere gli autentici pilastri della società: libertà e verità.
Un plauso anche a Ludovica Apollonj Ghetti che, nella parte del piccolo Olaf, riesce a portare in ogni suo ingresso una ventata di allegria e allo
splendido, raffinato interno “borghese” che Alessandro Camera ha ricostruito sulla scena.
I PILASTRI DELLA SOCIETÀ