Il Teatro Argentina di Roma inaugura la nuova stagione 2013-2014 all’insegna del dramma borghese con I pilastri della società di Henrik Ibsen: Gabriele Lavia, direttore artistico del teatro, qui nella duplice veste di regista e interprete, sceglie uno dei testi forse meno noti e rappresentati del drammaturgo norvegese (scritto nel 1877), ma che risulta drammaticamente attuale, nell’analisi della società borghese e nella denuncia della corruzione, come acutamente sottolineato anche dal trailer di lancio dello spettacolo.
La nuova produzione del Teatro di Roma, coprodotto con la Pergola di Firenze e lo Stabile di Torino, porta in scena un dramma psicologico interamente giocato sull’apparenza e sulla menzogna attraverso una messinscena sontuosa e molto elegante che si riflette fin da subito nella bellezza degli abiti di Andrea Viotti, nella ricchezza degli interni borghesi (di Alessandro Camera), fra la magnificenza dei velluti, i grandi quadri, l’opulenza dei tappeti, l’eleganza dei divanetti dove si consumano inaspettate rivelazioni e conversazioni poco consone.
La società borghese di Ibsen, paludata e perbenista, divide nettamente gli uomini dalle donne giudicata, ma solo apparentemente inferiori, dato che si riveleranno forse essere la vera novità e la vera forza del futuro: in tutto ciò il Vecchio Continente stride totalmente diverso dal Nuovo, simbolo sfacciato della libertà individuale.
Sotto la ricchezza borghese e l’apparenza del perbenismo si cela infatti una società alla deriva morale (spaventosamente attuale) alle prese con i cambiamenti economici, le pressioni dei sindacati e la modernità, dove si cela la parabola del Console Bernik, interpretato da Gabriele Lavia, ora arrogante, ora indebolito e spaesato.
“La politica è corrotta perché la società è corrotta”. Non c’è nulla da eccepire in effetti in quello che dice il rispettabile Console Bernik, pilastro morale della società che lo vede come un campione di perbenismo e di ricchezza. Ma è tutta apparenza e la realtà è ben diversa da quel che sembra: Bernik autorevole esempio di pilastro della società, in realtà vive da 15 anni nella menzogna, sulla quale ha fondato tutto il suo potere e la sua ricchezza, facendo ricadere le sue colpe sul cognato Johan, che è fuggito in America. Il ritorno di Johan e di Lona, la sola donna che Bernik abbia mai veramente amato, lo metteranno davanti alla necessità morale di confessare le proprie colpe davanti alla società riacquistando finalmente la sua libertà individuale. Alla fine Bernik sarà costretto a gettare la maschera e a svelare come sia riuscito a creare la sua forma di rispettabilità e di onestà, di ricchezza e di potere, attraverso uno stuolo di bugie, passando sopra a chiunque e senza il minimo segno di pentimento morale.
Difatti come sempre in Ibsen, il dramma esplode lento, ma inesorabile, quasi lancinante e serrato: il cerchio morale si stringe inesorabilmente e inevitabilmente attorno a Bernik, pronto a tutto pur di mantenere il proprio potere e la propria rispettabilità, pronto a corrompere chiunque pur di mantenere non solo i propri privilegi, ma anche di mantenere l’immagine che ha costruito di sé dinanzi agli altri, conscio che “Se non hai un soldo non conti nulla in questa società”.
Rigorosa la regia di Lavia che immerge questo grandioso senso di decadenza e di finzione apparente in una messa in scena tradizionale e sontuosa in cui spiccano le bellissime le luci di Giovanni Santolamazza, molto affascinante l’idea di raggelare per un attimo i numerosi attori in scena (quasi 20), che rimangono come bloccati nella società. Qualche cedimento verso il comico dal dramma, e qualche eccesso recitativo (come le risate un po’ troppo sguaiate di Lona, simbolo della libertà, interpretata da Federica Di Martino), di un nutrito cast nel complesso bene assortito, non penalizzano uno spettacolo lungo tre ore, ma sempre avvincente e attuale che sembra non mostrare i suoi primi 150 anni. Complimenti a Lavia per aver recuperato un testo spesso snobbato dai teatri italiani. In scena fino al 22 dicembre al Teatro Argentina di Roma.